E' rimasta aggrappata a un pezzo di legno per 48 ore in mezzo al mare, tra i resti di quel barcone dove avevano trovato la morte una sua compagna e il figlio. Il suo racconto
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Quegli occhi sbarrati a fissare ancora il mare, mentre i soccorritori della Ong spagnola Proactiva Open Arms, cercavano di metterla al sicuro sul loro gommone, sono il simbolo della tragedia dell'ultimo naufragio di migranti nel Mar Mediterraneo. Lei è Josefa, del Camerun, rimasta aggrappata per 48 ore tra i resti del gommone che, al largo della Libia, si era rovesciato. La sua compagna di viaggio con un bimbo non ce l'ha fatta: erano entrambi morti da ore quando sono arrivati i soccorsi. Ai sanitari Josefa ha raccontato il suo calvario. Ma più delle parole, racconta di lei quello sguardo vitreo, spalancato alla vita.
Una volta trasbordata sulla nave di Open Arms, dove ad attenderla c'erano i sanitari e la giornalista di Internazionale Annalisa Camilli, Josefa ha impiegato alcune ore per riprendersi, dire il proprio nome e raccontare ai presenti la sua storia.
Quando è stata salvata si trovava, infatti, in stato di shock e in ipotermia grave. E' stata subito adagiata sul ponte dell'imbarcazione e avvolta con teli termici, ma continuava a tremare. Al braccio una flebo di soluzione fisiologica: aveva bisogno di essere reidratata.
E in francese, lentamente, con un filo di voce, ha ricostruito il suo calvario. "Sono del Camerun, - ha raccontato, come riferisce Annalisa Camilli. - Sono scappata dal mio Paese perché mio marito mi picchiava. Mi picchiava perché non potevo avere figli".
Fuggiva dalle botte Josefa, ma una volta in Libia ha trovato altri aguzzini ad attenderla: e altre botte. Fino alla partenza e al naufragio. Ma di quest'ultimo evento non ricorda nulla. "Sono arrivati i poliziotti libici - ha solo detto. - E hanno cominciato a picchiarci". Di una cosa è certa Josefa: non vuole tornare in Libia.