Urne vicine

Elezioni, il linguista dà i voti ai programmi"Partiti sempre più ambigui, violenti, personali"

Il professor Riccardo Gualdo dell'Università della Tuscia ha letto per Tgcom24 i programmi dei maggiori partiti e mette in guardia: "I leader usano parole vaghe per rubare voti agli avversari"

15 Feb 2013 - 11:49
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I politici sono gli specialisti della parola contorta e allusiva, che allude a tutto ma nulla dice davvero. E di parole a effetto sono pieni i programmi elettorali con i quali i partiti stanno cercando di conquistare consensi. Ma come li hanno scritti? Tgcom24 lo ha chiesto al professor Riccardo Gualdo, ordinario di Linguistica italiana dell'Università degli Studi della Tuscia, da tempo studioso del linguaggio usato nel Palazzo.

Che giudizio dà al programma di ogni partito?
Fratelli d’Italia ha programma molto diretto e aggressivo, un po’ confuso. Anche dal punto di vista linguistico, non particolarmente curato. Confonde parole classiche della Destra come “popolo” con parole tipiche di un'altra ideologia come “democrazia”.
Popolo della Libertà e Lega Nord: l’impronta generale è dettata dalla lettera iniziale di Berlusconi. Fa uso del "lei" nel rivolgersi all’elettore, fa riferimento ai valori della famiglia e alla propria esperienza personale. Il programma è piuttosto chiaro, un po’ lungo quindi poco efficace. Adotta un linguaggio che oscilla tra stile colloquiale, a volte aggressivo, e vecchio politichese (con formule retoriche tipo “cerchiamo” o “dobbiamo”, dittologie, poliptoti temporali che uniscono verbi al presente e al futuro come “facciamo e faremo”).
Fare per Fermare il Declino: il programma di Giannino è uno di quelli scritti meglio. I dieci punti programmatici sono molto asciutti, per chi vuole saperne di più ci sono gli approfondimenti su ciascun punto. Usa frasi brevi, di massimo 15 parole, nessun punto e virgola. È perfetto per la lettura online e non risente 
come gli altri del modello volantino.
Scelta Civica con Monti per l’Italia: formalmente è un programma equilibrato, pulito, curato. Non molto aperto al linguaggio colloquiale, con tanti termini tecnici. Le frasi sono abbastanza lunghe. L’elemento apprezzabile è che la gerarchia degli argomenti è abbastanza curata e denota uno sforzo maggiore di elaborazione razionale dei contenuti.
Rivoluzione Civile Ingroia: troppo lungo e dettagliato. Curato da un punto di vista linguistico, non ci sono errori gravi. Ma forse è stato composto al computer quindi contiene una serie di errori tipici dei fogli di testo elettronici.
Partito Democratico: il programma è organizzato intorno a parole chiave. Dal punto di vista formale non presenta particolari novità comunicative. Lingua chiara, comprensibile al lettore medio, quindi il contrario di quello che fa Sel che preferisce lessico più cercato
Sinistra Ecologia Libertà: come dicevo, si distingue per l’uso di termini non comuni. In genere, Vendola è ricercato, non sceglie mai la parola ovvia. È un documento troppo lungo in cui manca il colpo d’occhio sui temi principali.
Movimento Cinque Stelle: contiene delle lacune strane, per esempio non si parla di donne e di criminalità. In generale non è molto ricco nei contenuti ed è formulato in modo generico e squilibrato: alcuni punti sono molto dettagliati, altri molto vaghi. Alcuni argomenti mancano del tutto.

Nel complesso, i programmi elettorali sono scritti in un italiano soddisfacente?
In generale sì, ma in alcuni casi sono stati scritti un po’ di fretta, ci sono incertezze, difficoltà di organizzazione concettuale e sintattica, ma sono minuzie. Gli elementi più significativi sono la forte presenza dell’inglese, l’uso abbondante delle liste e dell’infinito.
L’inglese è il prezzemolo nella lingua politica contemporanea. Si tratta di una concessione alla “politicosmetica” come la chiamo io con un neologismo. Quelle inglesi sono parole alla moda, che attirano l’attenzione, ma dietro le quali spesso c’è poca sostanza. Un esempio? Compaiono le espressioni “Smart Cities”, “Green Economy”, “Cloud Computing”, molto spesso non accompagnate dalla traduzione in italiano. Gli elenchi, invece, sono un portato dell’uso del computer.

Quali sono i tratti principali dei programmi elettorali?
Direi forte tendenza alla personalizzazione, protagonismo dell’economia, riferimenti alla Rete ancora timidi, donne latitanti, marginalità dell’ambiente.
La personalizzazione è un tratto tipico della politica contemporanea già da alcuni anni e Beppe Grillo è il campione di questa moda. Altri partiti puntano meno su leader, ma poi sul loro simbolo il nome del capo compare. L’unico che si sottrae a questa logica è Pierluigi Bersani che si ispira a un modello partitico non personalistico, molto vicino a quello del vecchio Pci.
Un elemento nuovo è l’uso di lessico economico, con cifre e dati precisi. Anche l’espressione usata da Monti della “salita in politica” è mutuata dall’economia e richiama il salire e lo scendere delle azioni in Borsa. L’economia è così presente perché economici sono i problemi quotidiani dei cittadini quindi l’economia è un razzo lanciato alla loro pancia.

Cosa l’ha colpita?
Il termine “rivoluzione’” è molto presente sia nei programmi sia nei simboli. Veicola l’idea di stravolgere la politica dalle fondamenta. Mi stupisce però, che questo proposito sia presente anche nei manifesti di partiti che erano al governo o coinvolti nelle istituzioni fino a ieri. La domanda sorge spontanea: ci possiamo fidare? L’altro dato anomalo è che si parli poco di “criminalità”. La parola “mafia”, per esempio, non compare nei documenti di Pdl e Fratelli d’Italia se non come accenno generico. Invece, compare in quelli di Ingroia e Monti.

Quale strategia c’è in questi testi?
È la prima volta dalle elezioni del 1921 che italiani non sanno con sicurezza chi vincerà e questo è un fatto nuovo. La conseguenza di tale incertezza è proprio nei programmi: i partiti presentano contenuti ambivalenti che pescano consensi in tutte le direzioni. Faccio degli esempi. Il Pd scrive: “Il nostro posto è in Europa. Noi collocheremo sempre più saldamente l’Italia nel cuore di un’Europa da ripensare su basi democratiche”. È come se si dicesse: il Pd è felice di essere in Europa, ma non del tutto visto che ne vuole ridiscutere i fondamenti.
Un punto viene formulato addirittura con le stesse parole da Pd e PdL. Il Pd scrive: “[…] dovremmo colmare la faglia che si è scavata tra cittadini e politica”. Il PdL gli fa eco: “Vogliamo colmare il fossato tra gli italiani e la politica […]”. Due partiti antitetici insistono sullo stesso concetto e lo esprimono con parole analoghe. È impressionante: la diversità d’intenti è solo apparente, la sostanza è identica.
I partiti usano le parole tipiche dello schieramento, ma usano anche una parte del lessico dell’avversario. Vogliono giocare su più tavoli e strizzare l’occhio ai bacini elettorali contigui al proprio. Del resto l’elettorato maturo è costante, puntano a intercettare i più giovani che invece sono imprevedibili.

Il linguaggio utilizzato nei programmi dai maggiori partiti rispetta la classica distinzione destra/sinistra?
A sorpresa no. C’è molta sovrapposizione di temi e parole, una certa tendenza al mascheramento, alla confusione e forse alla ruffianeria

C’è differenza fra lo stile dei programmi e quello usato dai politici nelle apparizioni televisive?
C’è un abisso tra i programmi e le uscite pubbliche perché il canale scritto e quello audiovisivo hanno regole diverse. Quasi tutti i leader hanno una buona familiarità con il mezzo televisivo a eccezione forse di Bersani e Maroni che non sono molto facondi. Anche Ingroia è un po’ debole come oratore e sembra più abituato a un'aula di tribunale che non da politico.
Quando compaiono in televisione, i leader sono molto più aggressivi nei confronti dell’avversario rispetto a quando stilano i programmi elettorali e soprattutto riescono a distinguersi meglio l’uno dall’altro.
È stato il talk show a cambiare il modo di parlare dei politici. Ormai è il politico che parla secondo le regole che gli impone un determinato formato televisivo e non viceversa. Non conta più quello che si vuole comunicare, ma la piattaforma in cui si appare: talk show, intervista oppure tweet.

I nostri politici parlano ancora in modo credibile?
La politica deve proporre valori generali, condivisi da fasce ampie dell’elettorato. E su questo piano non direi che politici attuali siano meno credibili dei politici di 20/30 anni fa. Il problema è piuttosto la perdita di credibilità da parte delle istituzioni, non dei politici. Vedo con molta preoccupazione che tra giovani c’è forte disillusione sul ruolo dell’impegno politico e delle istituzioni. E si sta diffondendo l’idea molto pericolosa che la politica possa essere costruita solo dal basso.

Quali politici manderebbe a ripetizione di italiano?
Rimanderei a settembre Fratelli d’Italia che propone il programma meno curato dal punto di vista linguistico, forse perché è un programma in fieri, scritto con il contributo della Rete. Per il resto i programmi sono molto diversi nella scelta della modalità sintattiche: lunga e contorta la forma adottata da Monti e Ingroia. Uno che salverei a sorpresa è invece, Antonio Di Pietro: al netto della cadenza regionale e di alcune espressioni colorite, il suo modo di esprimersi non è poi così sbagliato.

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