Carlo Conti ha fatto un Festival nel segno della tradizione. Poco spazio alle novità e alle sperimentazioni, e non è detto che sia un male...
di Domenico Catagnano© ansa
Sanremo, giù la maschera. Ci avevano provato in questi anni a cambiare, a farlo diventare bipartisan, con scelte musicali più ardite per accontentare sia gli amanti della melodia che quelli di sonorità più ricercate. Il risultato, specialmente nelle ultime edizioni, era stato un papocchio, un festival che a forza di strizzare l'occhio da una parte e dall'altra si era ritrovato strabico.
E allora indietro tutta, meglio non rischiare ancora, andare sul sicuro lucidando lo spirito dei migliori anni. E migliore restauratore non poteva che essere Carlo Conti. Bravo presentatore, lineare, pulito, probabilmente il vero erede del Pippo Baudo degli anni d'oro del nazional popolare. Ha rischiato pochissimo, e i risultati, in tutti i sensi, gli hanno dato ragione.
Il parco cantanti in gara, innanzitutto. Nessuna concessione agli sperimentatori (i più "trasgressivi" erano Biggio e Mandelli, pensate un po'...), ma un equilibrato mix tra vecchie volpi dell'Ariston, alcune delle quali recuperate dopo anni di assenza, un'abbondante infornata di ragazzotti dai talent show e un paio di scommesse senza la pretesa di aspettarsi chissà cosa. Nel complesso un' aurea mediocritas perfetta per Sanremo. Meno perfetta la scelta dei giovani, la cui mediocritas era decisamente poco aurea. Pazienza.
E poi gli ospiti: una grandeur che non si vedeva dagli anni '80. Non a caso ha fatto centro la furba rispolverata di Al Bano e Romina e degli Spandau Ballet, protagonisti proprio di quel decennio. E ancora tanti bei nomi di big italiani e, come accadeva una volta, il meglio del pop internazionale di questo periodo.
Con questi ingredienti poteva non che essere logica, giusta e sacrosanta la vittoria dei tre tenorini del Volo. Premessa: le ugole d'oro all'Ariston hanno sempre strappato applausi a scena aperta. La gente si emoziona, c'è poco da fare. Voci possenti, volti giovani (sessantun'anni in tre, ma anche un imbolsito Tony Hadley a loro confronto sembrava un ragazzino), i tre hanno presentato un pezzo che più sanremese non poteva essere a cominciare dal titolo ("Grande amore" in una finale nel giorno di San Valentino: perfetto, no?), con una melodia tanto vecchia quanto sicura. Una canzone brutta, sinceramente, ma calata perfettamente nello spirito più conservatore dell'Ariston.
Lo spirito rassicurante, tranquillizzante, narcotizzante che ci fa amare Sanremo. Un festival restituito alla sua dimensione di carrozzone, così come deve essere. Per le novità c'è tempo e c'è altro. Preferiamo questo rigurgito di cultura pop. Era ora (perdonateci la freddura che magari sarebbe piaciuta a Siani) che tornassero... i Conti.