DJANGO UNCHAINED

Tarantino e quegli americani così stupidi...

"Django Unchained", tra citazioni e omaggi, parla in modo forte e arguto di razzismo

17 Gen 2013 - 11:38
 © Da video

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Dopo averci girato a lungo intorno, Quentin Tarantino dà forma compiuta alla sua passione sfrenata per lo spaghetti western (soprattutto di matrice italiana). La storia dello schiavo liberato Django (Jamie Foxx), che prima diventa bounty killer accanto all'eccentrico dottor Schultz (Christoph Waltz) e poi viene da questi aiutato nella sua missione di liberare la schiava Broomhilda, sua moglie adorata, proprietà del perfido Calvin Candie (Leonardo Di Caprio), permette al regista di costruire un grande affresco in cui si parla soprattutto di razzismo. In modo non convenzionale, ma non per questo meno forte.

Su questo fronte colpisce più una vicenda come quella tarantiniana o il "Lincoln" di Spielberg, con tutti i tormenti e le astuzie del presidente ma il popolo di colore praticamente assente dal film, una figurina sullo sfondo? Questo per dire che Tarantino è grande intrattenitore, ma questa volta ha voluto anche metterci qualcosa di più. Rispettando a suo modo la realtà storica, ovvero piuttosto poco.

Perché come sempre quello di Tarantino è un gioco al rialzo continuo, dove la credibilità e la coerenza vengono sacrificate sull'altare dell'arte cinematografica. Cinema per il cinema. Nel quale salta all'occhio una scrittura ricca, con dialoghi brillanti e accattivanti, e una maestria totale nello scegliere, prima, e guidare, poi, gli attori costruendo personaggi epici. E se dopo la sorpresa di "Bastardi senza gloria", Christoph Waltz conferma tutto il suo talento, la palma del virtuoso in questo caso va assegnata a Samuel L. Jackson e al suo Stephen, un nero minato nel fisico (e reso più sottilmente inquientante) dal Parkinson, ma dalla mente lucidissima nella sua perfidia. Un nero che sta dall'altra parte della barricata: fedele fino all'ultimo al padrone bianco, pronto a far punire con ferocia qualsiasi schiavo provi a ribellarsi.

In quanto al razzismo, lasciano il tempo che trovano le polemiche per l'uso reiterato della parola negro. A parte che utilizzare termini più "politicamente corretti" in una storia ambientata nel 1850 sarebbe risultato non solo ipocrita ma a dir poco ridicolo, l'antirazzismo di fatto del film potrebbe essere condensato nei cinque minuti di comicità alla Monty Python con cui il regista piccona senza pietà i bifolchi bianchi del Ku Klux Klan. Ma a più ampio raggio ci sarebbe in realtà da ragionare su come Tarantino rappresenti gli americani bianchi, razzisti e ignoranti quando non del tutto idioti, in confronto all'intelligente e colto dottore tedesco o anche ai neri, ben più arguti e scafati, se persino un personaggio negativo come quello di Stephen deve fare da testa pensante per il cattivo Candie, ricco e prepotente, ma perso nel suo narcisismo e nella sua ignoranza. 

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In "Django Unchained" c'è tutta la poetica e la visione del cinema tarantiniana, spinta all'eccesso. Citazioni e omaggi si susseguono in numero così ampio che solo appassionati cinefili, meglio se del cinema di genere, possono coglierli nella loro totalità. Dai titoli di testa sulla musica del Django originale di Sergio Corbucci, alla scena finale costruita sul tema portante di "Lo chiamavano Trinità", personaggi, cameo, battute, nomi e situazioni potrebbe costituire la base per un gioco a premi per chi ne coglie o indovina di più. Ma il film non è un'opera per iniziati, anche chi non ha mai visto uno spaghetti western in vita sua (o peggio, li ha odiati), può uscire dal cinema divertito e soddisfatto. Nonostante i difetti non manchino. In primis un calo di tensione tra la strepitosa prima ora e il pirotecnico finale. E poi un uso della violenza (e altrimenti che Tarantino sarebbe? dirà qualcuno) che a un certo punto sembra prendere la mano al regista. 

E poi c'è la questione di fondo, che è quella che divide il pubblico tra chi adora regista di "Pulp Fiction" e chi lo detesta. Quello di Tarantino è un gioco, colto, ma pur sempre un gioco. Per qualcuno può risultare affascinante, per qualcun altro stucchevole e inutile, un modo per non fare cinema originale, ma lucrare sul lavoro degli altri. Ma anche prendere e riutilizzare, cambiando di senso o anche solo rinnovando, può essere arte, o quanto meno grande mestiere, non è un lavoro da tutti. 

Cosa si vuole da un film? Qui c'è una storia epica, grande intrattenimento, ottima recitazione e una messa in scena accurata. E, se non bastasse, anche un messaggio forte di fondo. Non vi basta?

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