"Io e i miei figli minacciati di morte"

Giornata contro la violenza sulle donne, una sopravvissuta a Tgcom24: "Manca l'ascolto delle vittime, ho lasciato l'aggressore e ho trovato un branco"

La testimonianza di Tiziana Di Ruscio, presidente dell'Associazione Il Nastro Rosa: "Il 25 Novembre? Per me ha doppio significato: dopo 8 anni, dalla Cassazione aspetto conferma sulla condanna dell'ex"

di Gabriella Persiani
25 Nov 2022 - 07:00
 © Tgcom24

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"Ho lasciato l'aggressore, dopo oltre 20 anni di violenze su di me e sui miei figli, e ho trovato un branco a livello istituzionale". Era il 2014 quando finalmente Tiziana Di Ruscio di Pineto (Teramo) trovava la forza di presentare quella denuncia che per anni aveva tenuto nel cassetto. Il suo percorso di riscatto contro un marito violento su di lei e sui tre figli era iniziato nel 2008 quando la scuola avvertì la famiglia del comportamento insolito di uno dei bimbi. Inizia l'iter con i servizi sociali, "per qualche mese, poi scompaiono tutti e a quella denuncia già scritta rinuncio su richiesta della famiglia di lui - racconta tra le lacrime a Tgcom24 Di Ruscio, dal 2018 presidente e fondatrice dell'associazione contro la violenza di genere Il Nastro Rosa. - Ho sopportato per altri sei anni prima di andar via di casa e ho preso la decisione quando io e i miei figli eravamo arrivati ormai a rischiare ogni momento la vita". E' da lì che Di Ruscio ha capito che "La violenza non è il mio destino", che è anche il titolo della sua autobiografia pubblicata nel 2021.

Cosa le ha dato la forza per dire basta a oltre 20 anni di violenze?
"Quella volta che, andando ad acquistare un vestito per la cresima di mio figlio maggiore, il mio ex marito ci ha fatto salire in auto e, infuriato perché non aveva trovato niente in negozio, cominciò a sfrecciare a tutta velocità, contro senso, in una strada molto trafficata. Io ero seduta dietro con i bimbi più piccoli e osservavo inerme e con dolore il più grande, seduto accanto al padre, che piangeva mentre venivamo minacciati: ci avrebbe ucciso tutti. Lui a casa aveva le armi, puntava il coltello contro i miei figli per un nonnulla, ma, se chiedevo aiuto intorno a me, mi veniva risposto: 'E' colpa tua che lo hai sposato, sapevi che era un violento già da quando eravate fidanzati'. E pure dopo la denuncia mi sono sentita sola e isolata anche dalle istituzioni, che, nella freddezza della burocrazia, devono valutare il grado di violenza subito e non ti danno ascolto. Anzi, devono convocare l'aggressore per ascoltare le sue ragioni. Lì mi sono sentita persino umiliata, sapevo che la situazione in casa dopo la convocazione poteva solo peggiorare".

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Come ha superato lo stigma sociale?
"Sono arrivata a registrare con il telefonino le violenze sessuali che subivo pur di farmi credere, perché è troppo difficile non solo raccontare e denunciare, ma anche mostrare i segni delle violenze che spesso non sono visibili. Non c'è solo la violenza fisica, ma anche quella psicologica, quella economica. Una donna dopo la denuncia si ritrova sola, e nel mio caso con tre figli minori ma con un'età superiore ai 3 anni, senza casa e senza lavoro. E ho provato sulla pelle che la legge prevede più attenzione per l'aggressore, che va socialmente reinserito, che per la vittima. Dopo la denuncia alle vittime serve protezione. E io, ancora oggi, a distanza di anni devo fare i conti per strada con parenti e conoscenti di lui che mi additano come colpevole. 'Tu l'hai voluto', mi sento ancora ripetere. Porto addosso l'etichetta della persona fragile, che ci ha messo troppo tempo a denunciare".

Ha avuto giustizia?
"Anche lì, la giustizia è lentissima. Sono passati 8 anni dall'avvio del processo, due dei nove anni di condanna sono andati prescritti. Il 25 novembre, per una strana coincidenza con la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, la Cassazione riterrà inammissibile il ricorso dell'ex marito contro la condanna a 7 anni. Io ho voluto partecipare a tutte le udienze, è stato durissimo, una ferita sempre aperta; fa troppo male testimoniare e ascoltare il racconto dei propri figli. Certo, sono cambiate molte cose, per fortuna, a livello legislativo dal 2008 a oggi, ma anche il codice rosso è una misura troppo limitata nel tempo. Bisogna impedire di fare del male e di continuare a farlo. La violenza va arginata nel momento in cui si chiede aiuto".

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© Ansa-Centimetri

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Cosa si sente di dire a una donna maltrattata?
"La violenza domestica è diffusissima, più di quanto si creda, nelle grandi e nelle piccole città. La donna vittima di violenza manda segnali che purtroppo chi è vicino non riesce a cogliere. E neanche le istituzioni sanno comprendere i campanelli d'allarme: troppa burocrazia, poca sensibilità, poca preparazione. Io posso dire di non essere stata capita. Bisogna essere fortunate, mi creda, anche quando si va a denunciare, perché spesso ci si sente giudicate invece che ascoltate. Io ero costretta a fare terapia di coppia, avevo per un periodo l'educatore che veniva a casa, eppure, in realtà, io continuavo a rischiare la vita. Ma bisogna comunque denunciare, si deve denunciare. Per se stesse e per i figli. E si deve pretendere protezione".

E' anche per questo che ha dato vita all'associazione Il Nastro Rosa?
"Sì, io sono una sopravvissuta e ho il dovere di testimoniare per salvare altre donne. E ho il dovere di farlo anche per chi non c'è più, per chi è vittima di femminicidio. Ogni giorno è un bollettino di guerra. Io posso sapere in quegli ultimi istanti quali sono stati i pensieri di una donna uccisa per mano di un compagno, le sue paure le ho provate troppe volte. Io posso comprendere ogni parola, ogni racconto di maltrattamento. L'aggressore, per paradosso, vive in un cerchio di protezione e la vittima è sola rinchiusa in questo cerchio, ha paura, nella sua solitudine".

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© Luca Marenda
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Cosa fa dunque ora?
"L'associazione ha dato vita a uno sportello di ascolto, un luogo dove le utenti non vengano 'selezionate' in base al 'grado di violenza subita', come accade se ci si rivolge alle istituzioni pubbliche. Il legislatore deve sapere che non esiste un grado di violenza, che la vittima non va mai valutata. Organizziamo anche corsi di autodifesa. Io per prima penso che mi sarebbe stato utile sapere come potermi difendere. E, poi, andiamo nelle scuole. Perché non c'è solo il 25 Novembre per parlare di questa tragedia".

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