Autore del libro "Cuore di Stato" e di indagini su fatti di terrorismo interno e internazionale, il Procuratore della Repubblica a Trieste espone il suo punto di vista sul rapimento e sull'uccisione dello statista della Dc
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A quarant'anni dal rapimento e dall'uccisione di Aldo Moro, "alcune domande sono ancora senza risposta e il crimine in cui ci si imbatte può rappresentare la punta di un iceberg, il semplice sintomo di un fenomeno ben più vasto". E' quanto afferma a Tgcom24 il giudice Carlo Mastelloni, dal 2014 Procuratore della Repubblica a Trieste e autore del libro "Cuore di Stato. Storie inedite delle Br, i servizi di sicurezza, i Protocolli internazionali". Il magistrato è stato per 15 anni giudice istruttore, svolgendo indagini in importanti inchieste su fatti di terrorismo interno e internazionale.
Cominciamo dal titolo del suo libro: "Cuore di Stato". Era proprio così che le Brigate Rosse definivano Aldo Moro...
Il titolo del libro si riferisce al centro nevralgico dello Stato rappresentato da Aldo Moro e alle contraddizioni più profonde della Prima Repubblica che aveva tessuto anche lo statista. Noi siamo abituati a vedere la figura di Moro come colui che scrive invettive nei confronti dei suoi colleghi democristiani, che credevano che stesse rivelando chissà quali segreti. Mentre invece c'era un ghetto culturale, una differenza culturale tra i brigatisti e Moro: pur avendo di fronte uno dei rappresentanti massimi della Repubblica non seppero interrogarlo, nel senso che non avevano i presupposti culturali per entrare nella storia vera della Democrazia Cristiana. I brigatisti ritenevano giustamente che Moro rappresentasse il centro dello Stato, ma non riuscirono a scalfire quella che era la sua fedeltà istituzionale, anche di fronte alle contraddizioni del proprio partito.
A quarant'anni di distanza, quali sono le domande ancora aperte sul caso Moro?
Innanzitutto la qualità delle disposizioni di Cossiga, allora ministro dell'Interno, rispetto alle forze di polizia. Cossiga era un fortissimo accentratore e anche qualsiasi accenno di trattativa doveva passare da lui. Voleva essere il dominatore assoluto delle indagini e anche, credo, delle intercettazioni. Pretese che tutti gli incartamenti che pervenivano alla magistratura fossero trasmessi a lui in copia. Questo è uno degli aspetti che fa parte dei "misteri" dello Stato. Per quanto riguarda l'universo brigatista, non credo fosse possibile che otto-dieci persone fossero le uniche che si trovavano lì. Non credo neanche a un legame tra il gruppo operativo e la criminalità organizzata, che è uno dei falsi misteri. Non credo nemmeno al mistero del famoso colonnello Guglielmi, impiegato nei servizi come ufficiale dei carabinieri per vigilare addirittura sul buon esito del sequestro. Questo è stato uno dei più colossali fraintendimenti che siano avvenuti: Guglielmi avrebbe dovuto vigilare sull'uccisione dei suoi stessi compagni di viaggio carabinieri? Oltretutto conosceva Moro: gli era capitato di incontrarlo più volte durante le passeggiate che lo statista faceva al Foro Italico. Siamo di fronte alla necessità di discernere quelli che sono i buchi reali da quelli presunti che servono solo a vendere libri.
A dicembre si è concluso il lavoro della Commissione parlamentare guidata da Beppe Fioroni, che ha confermato macroscopiche lacune nelle indagini, depistaggi e ingerenze esterne.
Il presidente Fioroni ha fatto un lento lavoro di acquisizione di atti dei vari commissari. Alcuni di questi, secondo me, sono poco credibili. Come il presunto mistero di un controspionaggio dell'intelligence nei confronti dei brigatisti. Cose basate su ipotesi, ma senza alcun riscontro diretto. E poi ci sono altri aspetti che andrebbero approfonditi. Il problema è che oramai i brigatisti costituiscono una sorta di partito che difende le proprie posizioni, che non ha nessun interesse a rivelare aspetti inediti, perché coloro che non sono stati incriminati corrono il rischio di essere incriminati.
A tal proposito Lei ha proposto una legge che "abiliti" i soggetti coinvolti nella vicenda Moro a parlare...
Sì, ho auspicato una legge che mondasse qualsiasi rivelazione da questo rischio. E' l'unico modo per stimolare i brigatisti, di rango e non, a far emergere verità inerenti al loro mondo compartimentato, ma fino a un certo punto. Perché poi ci rendiamo conto che la compartimentazione prospettata dalle Br era anche una sorta di pretesto per la gente comune, nel senso che i militanti spesso rompevano questa compartimentazione o rivelavano qualcosa. Aveva tutti i difetti che hanno gli esseri umani, insomma. Non era un esercito, aveva delle regole precise che molto spesso però venivano violate.
Lei ha detto in un'altra occasione che delle Br ci è rimasta la paura...
Certo. L'anniversario di Moro, che è una cosa che bisogna ricordare e continuare a indagare. Anche sull'assassinio di Kennedy, che ha sconvolto la storia americana e mondiale, ci sono ancora aspetti da decrittare. Questo però è un lavoro che più che altro bisogna lasciare agli storici, perché molto spesso le carte che vengono acquisite devono essere vagliate con tempo e con saggezza e non con spirito di parte. Le commissioni parlamentari arrivano fin dove possono arrivare, poi sono gli storici che traggono le conclusioni. E poi bisogna considerare che nelle carte non si troverà mai scritta una verità dirompente o troppo segreta. Le carte, soprattutto quelle dei servizi di sicurezza, vanno decifrate comparandole una per una. Non troveremo mai un appunto, per esempio, sulla presunta partecipazione di qualche servizio di sicurezza nel sequestro oppure nel coinvolgimento di servizi stranieri nell'organizzazione delle Brigate Rosse.
Il terrorismo da Moro a oggi. Come è cambiato, cosa è cambiato?
E' cambiato tutto. Da una struttura antagonista armata che è stata sconfitta, perché ha perso quel minimo di consenso che aveva nelle fabbriche, siamo arrivati a un terrorismo di carattere islamico-religioso. E anche questo ha il fiato corto, perché ha tutt'altre dimensioni, le contromisure che sono state prese in Italia si sono rivelate efficaci. Però è un fenomeno completamente diverso. Già la sovversione degli Anni Ottanta e Novanta rappresenta un altro tipo di lotta, che si è fatta sempre meno aggressiva. E tutto questo anche se ci sono preoccupazioni innescate dalla disoccupazione, che però rientrano nei limiti della tolleranza istituzionale. Quella dei brigatisti era una guerra aperta, una lotta armata che nasce all'inizio degli Anni Settanta, si sviluppa e poi muore.