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La dottoressa romana Giuseppina Ricci a Tgcom24: "Quasi nessuno è certificato da tampone, però i sintomi sono talmente chiari che la maggior parte dei pazienti che visitiamo hanno contratto il virus"
di Giorgia Argiolas© LaPresse
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Giuseppina Ricci è una dottoressa di Roma che si occupa di chirurgia estetica e di medicina ambientale clinica. Una settimana fa, ha cambiato temporaneamente vita ed è partita per Bergamo come volontaria della Croce Rossa, rispondendo all'appello della Protezione civile per dare il suo contributo per l'emergenza coronavirus. E' tra i 300 medici selezionati e si occupa dell'assistenza dei malati a casa. "Il numero dei casi è sottostimato, bisognerebbe moltiplicarlo per due o per tre", spiega a Tgcom24.
Dottoressa, è partita da un giorno all'altro per venire ad aiutare. Perché?
Quando ho visto che hanno risposto 8mila persone al bando della Protezione civile ho detto: "Non mi chiameranno mai". Invece, dopo 24 ore è arrivata la telefonata. Mi hanno detto: "Si parte domani". Da un giorno all'altro sì, perché l'emergenza è seria. Quando ho saputo qual era la destinazione sono rimasta un po' sconcertata, ma poi ho accettato immediatamente, lasciando a casa le mie due figlie di 12 e 10 anni, che mi aspettano e sono molto orgogliose della mamma. Vedere i miei colleghi e i loro pazienti cadere sotto i colpi del virus dalla mia comoda poltrona non faceva per me. Sono un medico. Volevo dare una mano. Qui tutti stanno facendo un lavoro incredibile per proteggerci e coordinarci, penso ai ragazzi della Croce Rossa.
Lei fa parte delle Unità speciali di continuità assistenziale. Di cosa vi occupate?
Ci occupiamo di assistere i malati a casa in modo che gli ospedali non si intasino e il paziente possa gestire la sua malattia insieme ai familiari. Il malato non vuole abbandonare la sua abitazione, il terrore di andare in ospedale gli si legge proprio negli occhi. Una paura che riguarda soprattutto gli anziani che temono di morire lontani dai propri cari. Così si cerca di monitorare la malattia a domicilio, quando è possibile ovviamente, e quando non lo è si attiva il 118.
Com'è organizzato il lavoro?
L'Ats prepara le liste dei malati e, in base a questi elenchi, noi telefoniamo al paziente e, quando è necessario, al medico di base. Poi decidiamo quali visite sono le più urgenti. Partiamo dai casi più gravi, però cerchiamo di aiutare anche chi manifesta i primi sintomi e si trova in una situazione psicologica difficile.
Quante visite fate al giorno?
Dalle 5 alle 12. Ad ogni modo, riceviamo tantissime telefonate perché, oltre alle liste, nella giornata arrivano continuamente mail dai medici di base e chiamate da parte dei pazienti. Andiamo in macchina al domicilio del malato e davanti alla porta indossiamo i dispositivi di protezione individuale. Ci vogliono 8-9 minuti per vestirsi completamente. Il momento clou, però, è quando ci liberiamo del Dpi. Questa operazione va eseguita in maniera molto rigorosa, attenta, seguendo i protocolli, per evitare il rischio di infettare noi stessi e le altre famiglie che visitiamo successivamente, dove non sempre ci sono casi di Covid-19.
Quanti pazienti che soccorrete sono Covid-19 certificati?
Quasi nessuno è certificato da tampone, però i sintomi sono talmente chiari che la maggior parte dei pazienti che visitiamo hanno contratto il virus.. L'auscultazione polmonare, la saturazione d'ossigeno, l'affanno, la dispnea, la nausea sono tutti sintomi che ci riportano alla malattia e fino ad ora penso di non aver visto nessuno non contagiato, a parte alcuni bambini. Per un quarto dei pazienti viene attivato il 118, ma gli altri li seguiamo a casa. Cerchiamo il più possibile di non intasare gli ospedali. Certo, quando poi vediamo che la situazione nelle strutture sta migliorando - e va meglio ormai da un paio di giorni - riusciamo a mandarli in ospedale.
Chi vi capita di soccorrere?
Persone di tutte le età. Soccorriamo anche giovani, se si tratta di casi complicati possibilmente li mandiamo in ospedale. Nelle strutture, purtroppo, si attua una selezione. E' chiaro che venga data precedenza a un giovane piuttosto che a un anziano di 80-90 anni. E' brutto dirlo, però è così. Magari adesso la situazione migliorerà e non ci sarà più bisogno di fare una scelta, però per il momento è così. Tra l'altro, questo è una prassi che si segue sempre, anche se adesso è accentuata. Comunque, l'altro giorno mi è capitato di visitare una famiglia composta da padre e madre di 40 anni e 4 figli, tutti contagiati, tranne la piccolina di 1 e mezzo che aveva avuto solo un picco febbrile. I bambini stanno bene, hanno solo delle sintomatologie molto lievi, il padre e la madre avevano problemi polmonari. Il padre era terrorizzato. Io ho cercato di tranquillizzarlo. Per il resto, sono soprattutto persone anziane, anche senza patologie.
Il contagio in famiglia rappresenta un problema...
Assolutamente. Penso alle persone che assistono la mamma e poi tornano nelle loro case con figli e mariti. Comunque, dato il contenimento, secondo me, la prossima settimana potrebbe esserci l'ultima ondata di infetti, ma questo significa che fino a fine maggio sicuramente avremo a che fare con la malattia..
Lei ha paura del contagio? Le è stato fatto il tampone?
No, a nessuno di noi è stata fatto il tampone. E' anche vero che in biocontenimento è difficilissimo infettarsi. Per quanto riguarda la paura del contagio, mentre sto lavorando non esiste. E' chiaro che poi in alcuni momenti il pensiero si insinua, soprattutto quando cala l'adrenalina e la notte dico a me stessa: "Potrebbe cambiare tutto nella mia vita se succedesse". In realtà, però, le mie paure più grandi sono altre. Prima di tutto, a casa dei pazienti mi chiedo: "Riuscirai ad aiutare questa famiglia, quando sei biocontenuta, hai caldo, non riesci a respirare e il cuore ti va a mille?". Poi la seconda, quando esco e mi chiedo: "Riuscirò a non infettarmi mentre mi spoglio?".
Com'è per lei entrare in casa delle persone in questa situazione difficile? Come la vivono le famiglie?
Quando entro nelle case trovo persone molto composte, dignitose, calme, però è una calma apparente, perché vedi che hanno paura, mi guardano con gli occhi sbarrati mentre visito il paziente. La cosa difficile è poi parlare con il parente per decidere se inviare o meno il malato in ospedale, è come se avessi in mano il suo destino. E a casa ci ripensi e dici: "Avrò preso la decisione giusta?". E' un contesto in cui abbiamo famiglie stressate dall'isolamento e dalla paura di morire, stressate psicologicamente in maniera importante, per cui stiamo spesso prescrivendo anche l'uso di benzodiazepine in maniera controllata per calmare la situazione, per rendere la vita dei malati un po' più accettabile all'interno delle case e con la malattia.
Vi capita anche di utilizzare direttamente la terapia del dolore?
Negli ultimi giorni sta capitando molto poco, però le cure palliative servono per i pazienti in malattia conclamata: sono straziati, non hanno aria e quindi cercano in tutti i modi di respirare, ma non ci riescono. I colleghi della guardia medica mi hanno detto di aver sedato spesso i pazienti nelle scorse settimane o di aver somministrato loro della morfina. A noi, invece, negli ultimi due giorni non è successo.