"Avrebbe potuto difendersi con un'azione meno grave di quella arrecata", si legge nelle motivazioni della Corte di Appello di Torino, che ha condannato Alex Cotoia a sei anni e due mesi
Trentaquattro coltellate sferrate con sei coltelli diversi. Anche per questo per il caso giudiziario di Alex Cotoia non si può parlare di legittima difesa. Lo spiegano i giudici della Corte d'Assise di Torino nelle motivazioni della condanna in Appello del ragazzo a sei anni due mesi e due giorni per avere ucciso il padre Giuseppe Pompa. I colpi furono indirizzati soprattutto alla "regione dorsale" e "ci fu una reiterazione" e ciò, sottolineano i giudici, depone "univocamente nel senso di una condotta francamente aggressiva".
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L'omicidio si consumò nel 2020 alla fine dell'ennesima lite tra il padre e la madre di Alex. Ora il ragazzo, originario di Collegno (Torino), porta il cognome della madre, Cotoia. E proprio alla protezione della mamma durante la lite si appellò Cotoia sostenendo che si era trattato di legittima difesa.
Tuttavia, sostiene la Corte d'Assise d'Appello, "presupposti essenziali della legittima difesa sono un'aggressione ingiusta e una reazione legittima e mentre la prima deve concretarsi nel pericolo attuale di un'offesa, la seconda deve inerire alla necessità di difendersi, alla inevitabilità del pericolo e alla proporzione tra difesa e offesa". Tutti elementi che le trentaquattro coltellate e i sei coltelli diversi usati per "un'azione aggressiva" escludono.
Per i giudici la dinamica degli eventi di quella sera mostra che Alex, la madre Maria Cotoia e il fratello Loris avrebbero potuto sottrarsi al pericolo o "difendersi con un'azione meno grave di quella arrecata". Pompa, si legge nelle motivazioni della sentenza, diventa la vittima "di un'azione unilateralmente aggressiva del figlio". Come riporta Il Corriere della Sera, perdono valore probatorio per la Corte i ricordi della mamma e di Loris, testimoni oculari del delitto: vengono messe in luce le "rilevantissime contraddizioni" tra quanto dichiarato la notte dell'omicidio. I togati parlano di "giustificazioni illogiche" e "mistificatorie", oltre che di "strategiche e selettive amnesie inequivocabilmente finalizzate a mitigare la responsabilità" di Alex.
Il 13 dicembre la sentenza di secondo grado, non riconoscendo appunto la legittima difesa, ribaltò il primo verdetto tramutando un'assoluzione in una pena di oltre sei anni. La Corte inoltre dispose la trasmissione degli atti in procura per permettere la valutazione delle testimonianze rese dalla mamma e dal fratello di Alex. Dopo la condanna la mamma protestò: "Alex non è un assassino, io rischiavo di essere uccisa".
Dal processo era emerso il clima da incubo in cui era precipitata la famiglia. Il padre, Giuseppe, era stato definito un uomo irascibile, prevaricatore, ossessivo; al contrario, Alex era conosciuto da amici e compagni di studi per il carattere mite, garbato e riflessivo. Il delitto maturò al termine di una giornata di tensione fra i coniugi: Maria Cotoia, cassiera in un supermarket, raccontò che il marito nel corso della giornata l'aveva contattata non meno di 101 volte sul telefonino solo perché credeva che al lavoro avesse salutato un collega. Poi la lite in casa. Alex si intromise tra i due e trafisse il genitore con 34 fendenti, servendosi di 6 coltelli uno dopo l'altro.