L'INTERVISTA A TGCOM24

Disturbi alimentari, la testimonianza di Gabriella: "Entri in un vortice che ti inghiotte"

La donna sarda di 43 anni è guarita dopo svariate peripezie tra strutture specializzate, cliniche psichiatriche e cure private su e giù per l’Italia e ha raccontato a Tgcom24 la sua esperienza

di Giorgia Argiolas
15 Mar 2019 - 10:55
 © tgcom24

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L’anoressia nervosa è un vortice che ti inghiotte e sembra non darti scampo. Ma è un vortice da cui si può uscire. Lo sa bene Gabriella, a lungo vittima del disturbo, che oggi dedica il suo tempo libero ad aiutare le ragazze affette da dca. Un dolore disperato e un senso di inadeguatezza l’avevano portata a rifiutare il cibo. A tentare il suicidio senza però riuscire a farla finita davvero, a tagliarsi pur di non dover fare i conti con i sensi di colpa. A girare ospedali e cliniche in varie regioni d’Italia. La 43enne sarda, guarita ormai da tempo, ha messo al servizio degli altri la sua esperienza. "La Sardegna è ancora molto arretrata dal punto di vista delle strutture dedicate. Non esistono centri per i dca come Villa Garda a Verona o Palazzo Francisci a Todi. È gravissimo che nel 2019 la situazione sia ancora questa", ha spiegato la donna a Tgcom24.

Gabriella, quando ti sei ammalata?
Mi ammalai di anoressia nel 1997 all’età di 20 anni. Ho sempre avuto una fisicità abbastanza importante, un’ossatura grossa. Persi 10 chili in un paio di mesi, quindi mia mamma si preoccupò. Inoltre iniziai a diventare molto ossessiva in tutto (a scuola, nell’ordine). Il mio obiettivo inizialmente era quello di dimagrire un pochino. Poi persi il controllo.

Perché?
Tanti fattori concatenati confluiscono tutti insieme in quel momento in cui sei particolarmente debole o sensibile. Lo capii dopo aver affrontato un lungo percorso di psicoterapia (ci misi circa 7 anni per uscirne). Tra le altre cose, mi pesavano dei problemi familiari e la non accettazione del mio orientamento sessuale. A un certo punto, però, compresi di stare male e scattò il bisogno di chiedere aiuto, di salvarmi. Anche se volevo farla finita, morire, sparire. Ero stanca fisicamente ma soprattutto mentalmente.

Cosa è successo quando i tuoi genitori si sono accorti della tua condizione?
I miei genitori in questa situazione sono stati sempre molto presenti, hanno accettato la mia condizione senza provare vergogna. Quando mia mamma si rese conto che avevo un problema col cibo si informò subito, ma nella mia città, Oristano, e in tutta la Sardegna c'era il deserto. L'unico centro molto conosciuto all’epoca era Villa Garda a Verona, guidato dal dottor Riccardo Dalle Grave. Mi visitarono e decisero di ricoverarmi. Dopo 4-5 mesi vissuti all’interno della struttura, fui seguita in day hospital. Ma poi la situazione si complicò perché tentai il suicidio. Mi lanciai dal terzo piano della palazzina in cui abitavo e mi andò bene: una frattura al bacino e una all’anca, problemi al fegato, ma neanche un trauma cranico. Un miracolo praticamente, era nel mio destino. Sono stata molto fortunata.

In quel momento pensavi di non farcela con le cure o di non meritarti la vita?
Non stavo bene. Non era solo il fatto di non mangiare o di volersi autodistruggere. Tu vedi esteriormente un corpo magro ma non comprendi il dolore che c’è dentro. È talmente grande che certe volte non si può gestire. E poi ero reduce da un anno e mezzo di malattia abbastanza tosto, ero arrivata a pesare 36 chili. Ero stata ricoverata a Cagliari, all’inizio un lungo periodo nel reparto di Medicina della clinica Aresu, poi in psichiatria in altri ospedali, dove mi davano di tutto (antidepressivi, antipsicotici). I reparti psichiatrici non sono begli ambienti: sei “mischiato” con altre persone con patologie gravi. A 20 anni trovarsi in quella situazione non è giusto. O sei fortunato o sei forte, altrimenti non so se ne esci vivo. In tutto questo periodo storico, iniziai anche a farmi del male fisico, a tagliarmi tutti i tendini delle dita. Ci andavo giù pesante, poi la situazione degenerò: mi provocai delle fratture alle gambe.

Volevi punirti? 
Più che punirmi volevo sparire, volevo farla finita in tutti i sensi. A un certo punto ero anche diventata bulimica. Ero brava a eliminare il cibo, a mettere in atto delle strategie per non farmi scoprire. Ero arrivata addirittura a vomitare nei cassonetti. Sai quando il mondo diventa troppo pesante? Hai questa sensazione di essere spazzatura. Quindi il tuo unico obiettivo è distruggerti, hai il pensiero fisso sul cibo e, se sei autolesionista come lo ero io, su come farti male. Non ti senti capito, perché le persone ti devono salvare la vita perché pesi poco, perché sei depresso. Ma nessuno ti chiede: “Ma dentro cos'hai? Quali sono i tuo pensieri? Cosa ti fa stare così male?”.

Cos’è successo dopo il tentato suicidio? 
Trascorsi un po’ di tempo a Villa Garda e poi tornai a Oristano, dove mi seguivano uno psichiatra e uno psicologo. Nel '98, lo psichiatra sosteneva che io non soffrissi di disturbi alimentari, ma che avessi un disturbo borderline. Quindi lui propose ai miei genitori di farmi fare degli emi-shock, una sorta di elettroshock moderno. L'obiettivo sarebbe quello di farti dimenticare cose traumatiche, ma non servì a nulla. Ho solo dei vuoti di memoria grandissimi, come se mi avessero tagliato i ricordi. Una delle suore che lavorava nei reparti psichiatrici voleva che io mangiassi, non capendo che per una ragazza che soffre di disturbi alimentari questo atteggiamento peggiora la situazione. Così in un momento di rabbia lei fece venire gli infermieri, mi legarono a letto con le cinghie, come un animale. Lì impazzii. Ero molto arrabbiata perché vedevo tanta ignoranza. Fu molto umiliante.

Poi cos’è accaduto? 
Una mia cara amica, incontrata durante uno dei miei ricoveri, mi chiamò consigliandomi di intraprendere lo stesso percorso che stava seguendo lei a Villa Pini a Firenze. E’ una clinica prettamente psichiatrica, semiconvenzionata. All'epoca c'era un padiglione riservato a chi soffriva di disturbi alimentari. Fu un’esperienza impegnativa, anche perché non potevo uscire. I miei restarono in Sardegna, però venivano a trovarmi, anche perché esistono percorsi dove si fa anche la psicoterapia familiare. Io ero preoccupata per la scuola. All’epoca ero in quinta superiore e il preside non mi consentì di sostenere l’esame. Fu una batosta. A Villa Pini feci due ricoveri: il primo non andò bene e dopo un periodo trascorso a Oristano, continuando a girare tra psicologi e psichiatri, mi recai nuovamente a Firenze, prima di tornare ancora una volta a casa.

E com’è andata?
Tra il 2008 e il 2009, in Sardegna continuai la terapia per un bel po' di tempo. Intanto, avevo cambiato psichiatra. Prendevo una caterva di medicine all’epoca (quattro sonniferi, antidepressivi, ansiolitici, ecc.), non ero in grado di pensare con la mia testa fondamentalmente. Il nuovo dottore mi tolse tutto, a parte un regolatore d'umore. Però per permettermi di prendere solo questa medicina mi dovettero nuovamente ricoverare in psichiatria. Dovevo disintossicarmi, sembravo davvero una tossicodipendente, non riuscivo neanche a parlare. Ero sempre autolesionista, per l'ennesima volta mi lanciai per rompermi le gambe, me le fratturai entrambe. Mi dissero che sarei rimasta zoppa e lì iniziai a ragionare con la mia testa.

Cioè?
Pensai “io zoppa non posso rimanere”. Da quel momento cambiò tutto. Fu una una rinascita, l’inizio di una nuova vita. Iniziai a concentrarmi molto sulla salute, non potevo accettare il fatto di rimanere disabile o invalida. Grazie a Dio non sono rimasta zoppa, dopo 11 interventi ho risolto. Smisi anche di tagliarmi. E riniziai a mangiare, pur con le mie paure e molto gradatamente. Basti pensare che uso lo zucchero solo da sei o sette anni.

Oggi, a 43 anni, sono svanite tutte quelle paure? 
Sì, assolutamente, per me la malattia è una cosa superata, elaborata. E per la legge del contrappasso ora mi occupo di cibo. Io l'ho sempre amato, ma per un lungo periodo non me ne sono accorta. Nel 2000 sostenni l'esame da privatista come geometra. Mi diplomai e poi mi iscrissi all’Università alla facoltà di Scienze e tecnologie alimentari. Quando stavo male uno dei miei dolori più grandi era pensare che i miei coetanei andavano avanti nella loro vita mentre io ero ferma. Quando inizi a star bene hai voglia di goderti la vita. Io volevo tutto quello che non avevo avuto in 7 anni. Mi laureai pensando che un giorno avrei voluto aiutare concretamente le persone che soffrono di disturbi alimentari. Ed è quello che ho fatto e faccio tuttora. La malattia mi ha reso più empatica, mi ha permesso di usare il grande dolore che ho provato come opportunità per aiutare le altre persone.

Rispetto a quando ti sei ammalata tu c’è più consapevolezza, ma molte ragazze sono comunque costrette ad andare fuori per curarsi… 
Se non hai denaro non puoi andare fuori. Tra viaggi, alloggi ecc. ci vogliono tanti soldi, devi avere dietro una famiglia che ti sostiene. I miei genitori hanno speso un sacco. Mia madre ha usato la sua liquidazione per pagare la mia salute. Chi non ha una famiglia alle spalle non si può curare, è la verità, è la realtà. Questo mi fa rabbia. È come togliere il diritto alla salute. Tu hai un disturbo alimentare e non sai come comportarti. Se poi capisci che ti devi far aiutare dove vai? Cosa fai? Non c'è informazione. È molto triste.

Doversi spostare dalla propria regione e poi tornare e non trovare centri che ti seguano apre anche a delle ricadute? 
Certo. Trascorri quattro mesi in un posto, poi torni a casa tua e sei spaesato. Devi continuare un percorso e non lo puoi fare perché non esistono centri. Sei allo sbaraglio. Mi ricordo che quando tornai da Villa Garda non c'era un centro di riferimento e quindi i primi incontri avrei dovuto farli a Verona. Avrei dovuto fare un viaggio per un'ora di psicoterapia. Alla fine trovai un centro a pagamento, che costava 90 euro a visita.

Cosa ti senti di consigliare a chi affronta questo problema? 
Innanzitutto, di non vergognarsi, chiedere aiuto ai genitori, alla famiglia. Purtroppo, quando vivi il picco della malattia, puoi avere chiunque davanti che non verrai convinto, però c'è un momento in cui capisci che devi farti aiutare. Alle famiglie dico di non perdere tempo. È necessario poi far rete per far conoscere di più i disturbi alimentari.

Invece cosa ti auspichi per il futuro della situazione in Sardegna?
Mi auguro che entro il 2020 sia inaugurato in Sardegna un centro vero, reale, dove ci si possa ricoverare gratuitamente e dove ci sia uno staff competente a cui potersi affidare, perché il diritto alla salute è di tutti. Fin troppe persone muoiono a causa dei dca e non è giusto.

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