i numeri della discriminazione

Le donne in carcere, dove il tempo si è fermato e il patriarcato è (ancora) l'unico sistema sociale possibile

Le sezioni femminili restano inadeguate, le attività professionali sono poco variegate, l'accesso agli studi non è uguale per tutti: la discriminazione di genere, di fatto, è rimasta immutata

di Manuela D'Argenio
28 Nov 2024 - 17:17
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Il carcere come istituzione totale è una struttura pensata per uomini in cui si riscontra, anche nei documenti ministeriali, un’incapacità di rielaborarlo al femminile. Complice la bassa percentuale di detenute (il 4,2%) rispetto ai maschi, ancora oggi si fa fatica a tener conto dei problemi che affrontano le donne in un regime di reclusione: dalla privazione della genitorialità e dell’affettività all'adattamento all’ambiente. E soprattutto si innescano meccanismi di sottomissioni e "assegnazioni" di ruoli, anche inconsci, che cristallizzano il tempo, rendendo il patriarcato l'unico modello di società possibile, anzi pensabile, per le donne recluse.  

E' quanto emerge a oltre un anno dalla pubblicazione del primo rapporto di Antigone sulle donne detenute in Italia, facendo un focus su istruzione, formazione e lavoro all'interno delle carceri. Quei numeri sono stati snocciolati accuratamente durante una tavola rotonda alla presenza di Paolo Aleotti, giornalista ex Rai, docente presso la Scuola di Giornalismo e la Limed (Un. Cattolica Milano) e presso la Scuola di giornalismo della “Fondazione Basso” (Roma) Direttore di Radio Bollate; Susanna Ripamonti, giornalista, direttrice della rivista “carteBollate” redatta dai detenuti della casa circondariale di Bollate; Renato Rizzi: medico e psicologo, consulente presso il carcere di Bollate; Donatella Codonesu, giornalista, collabora con l’Università Roma Tre e la Libera Università IULM a Milano e Patrizia Pertuso, giornalista e antropologa.

Una società contadina degli anni '30 - Il filo conduttore delle cifre e delle esperienze raccontate è lo stesso: in carcere ci si è fermati alla società contadina degli anni '30. Dalla pubblicazione di quel rapporto nel 2023 a oggi nulla è cambiato, nonostante la acclarata discriminazione all'interno delle strutture detentive e nonostante i tanti tentativi di "normalizzazzione" portati avanti da associazioni e "addetti" ai lavori. Tutto fermo. Le sezioni femminili restano inadeguate, le attività professionali sono poco variegate, ii percorsi scolastici sono diversi per uomini e per donne e la mancanza di tutele per madri e figli in carcere è rimasta immutata. 

Le donne devono fare cose da donne - Dalle detenute sembra siano attesi comportamenti “tipici delle donne”, in tutti gli ambiti, ha spiegato bene Rizzi. Spesso vengono escluse dalla già carente offerta lavorativa e trattamentale, che si tende a proporre alla popolazione carceraria più numerosa, ovvero quella maschile. In alcune sezioni vige il vuoto di proposte: assenza di lavoro, di progetti, di laboratori e talvolta anche delle stesse attività scolastiche, per la mancanza dei numeri minimi per comporre una classe. "Ristrette in piccole sezioni, spesso si devono accontentare di fare piccoli lavori a maglia o all’uncinetto per riempire in qualche modo il tempo vuoto del carcere".  Attività figlie di una visione stereotipata per cui le donne possono solo fare questi tipi di lavoro. Anche per gli standard di pulizia ci sono aspettative diverse a seconda del genere, dalle donne ci si aspettano livelli più elevati. “Al femminile in molte strutture non c’è possibilità di usufruire del teatro - racconta una detenuta -  o non c’è possibilità di fare corsi di musica".  I dati ufficiali disponibili in relazione alle attività culturali, ricreative e sportive organizzate all’interno delle carceri non permettono di distinguere nel dettaglio il tipo di offerta né di comprendere dove si orienti quella rivolta alle donne detenute. Si nota tuttavia, guardando all’ultimo dato disponibile che è relativo all’anno 2021, uno scarto percentuale nella presenza di donne nelle attività sportive. Del resto, ci sono il ricamo o l’uncinetto. 

Percorsi di studi discriminati- Uno sguardo ai dati sugli studi universitari testimonia il forte gap tra uomini e donne. Alla fine del 2021, ultimo dato disponibile, erano 1.093 i detenuti iscritti all’Università (di cui 517 in istituti sede di Poli Universitari). Di questi, le donne erano solo 36. Tra i 19 detenuti che hanno conseguito la laurea nel corso dell’anno vi era una sola donna. 

Il senso di colpa e la sottomissione - Spesso la discriminazione non nasce da una volontà istituzionale, ma dalla mancanza di un pensiero sulla differenza di genere. Quando una donna finisce in carcere, fuori ci sono sempre i figli, un padre, un marito che restano abbandonati e senza sostegni. E così la detenuta, oltre al peso della carcerazione, si sente colpevole di averli lasciati soli, si sente responsabile per non poter far nulla per loro. Per colmare questo vuoto, racconta ancora lo psicologo Rizzi riguardo al carcere di Bollate, molte detenute chiedono di poter fare il bucato o le pulizie, innescando un meccanismo di sottomissione e di "ruolo" non richiesto, ma assimilato.

Suicidi, autolesionismo e abuso di psicofarmaci - Guardando al tasso di suicidi si riscontra un valore molto più alto per le donne che per gli uomini. Il primo corrisponde a 2,2 suicidi ogni 1000 persone, il secondo a 1,4. Si tratta in ambedue i casi di cifre altissime, considerando che nella popolazione libera il tasso è pari a 0,07 suicidi ogni 1000 abitanti (i numeri si riferiscono al 2022). Il dato sull’autolesionismo merita inoltre grande attenzione quando parliamo di donne detenute. Rivolgendo un breve sguardo ai dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone, vediamo come dalle visite effettuate emerga una media di gesti di autolesionismo significativamente più alta tra le donne rispetto alla popolazione detenuta totale: tra le donne sono stati registrati 30,8 atti di autolesionismo ogni 100 presenti, contro i 18,6 del totale dei presenti. Il disagio in carcere si combatte sempre di più con gli psicofarmaci. Una pratica confermata anche dallo psicologo Rizzi, che quantifica (numeri alla mano) in oltre due milioni di euro la spesa in questo tipo di farmaci nel 2022. Il 60% di essi sono antipsicotici (utilizzati fino a cinque volte di più di quanto si misuri per la popolazione in generale) e per il trattamento di disturbi gravi come schizofrenia e disturbo bipolare. Per quanto possano servire a curare patologie psichiatriche gravi come quelle appena citate, a seconda del dosaggio possono anche avere effetti sedativi rilevanti, al posto degli ansiolitici evitati per rischio di abuso e dipendenza. Secondo Antigone, a fronte di un utilizzo tanto diffuso di psicofarmaci, i carcerati con diagnosi psichiatrica grave sono meno del 10% del totale dei reclusi. Quindi il punto è capire se si sta cercando di guarire il problema clinico o di contenere le persone incarcerate, sedandole.

I numeri non aiutano - La causa maggiore di questo sistema patriarcale sono i numeri, essere minoranza non aiuta. Erano 2.392 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani al 31 gennaio 2023, di cui 15 madri con 17 figli al seguito. Le quattro carceri femminili presenti sul territorio italiano (Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia) ospitano 599 donne, pari a un quarto del totale. L’Istituto a custodia attenuata di Lauro ospita 9 madri detenute e altri tre piccoli Icam ospitano 5 donne in totale. Le altre 1.779 donne sono sostanzialmente distribuite nelle 44 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri pensate esclusivamente al maschile. Le detenute oscillano sempre tra il 4 e il 5% della popolazione carceraria. Non solo le donne in carcere sono poche, ma la maggioranza è in comunità molto piccole, all’interno di strutture disegnate per gli uomini. La bassa incidenza statistica sulla popolazione detenuta totale, potrebbe far illudere di una maggiore attenzione istituzionale nel costruire percorsi di reinserimento sociale, ma nella pratica è una delle cause principali di discriminazione.

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