Secondo i magistrati c'è stata "diffamazione" quindi l'interruzione del contratto è per "giusta causa"
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"Mi sono rotta di questo posto di m...", queste parole scritte su Facebook da una 43enne toscana residente a Forlì sono valse alla donna il posto di lavoro. Per la Cassazione il post condiviso sul social è "diffamatorio". La Corte suprema ha così stabilito una volta per tutte che quello della 43enne, invalida civile al 67%, è stato un "licenziamento per giusta causa" da parte dell'azienda che dopo quel messaggio ha deciso di interrompere il suo contratto di lavoro.
E' la mattina del 9 maggio 2012 quando la donna, dipendente di un'azienda di elettronica di Forlì, con il suo cellulare pubblica un post su Facebook in cui si lamenta di una continua modifica degli incarichi che le venivano assegnati. Il post viene però visto anche dal titolare dell'impresa che si rivolge agli avvocati e licenzia la dipendente. La donna decide di impugnare il provvedimento e intanto cancella il post da Facebook così come il suo ex datore di lavoro dagli amici.
Nel 2014 il Tribunale di Forlì definisce legittimo il licenziamento. Ma la donna decide di rivolgersi alla Corte di Appello di Bologna che di nuovo dà ragione all'azienda. Secondo i magistrati: "I social sono uno spazio pubblico, nel quale i contenuti potenzialmente diffamatori possono trovare un vasto eco. È venuto meno, in buona sostanza, il vincolo fiduciario che deve esistere tra azienda e dipendente".
La 43enne però presenta il ricorso in Cassazione che una volta per tutte ha stabilito che quello della dipendente è stato un licenziamento per giusta causa. I giudici hanno sottolineato che: "La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone. Scrivere un post sul social realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso per l'idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone con la conseguenza che, come nella specie, lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili".
In sostanza secondo la Corte Suprema la condotta della donna ha tutti gli "estremi della diffamazione", di conseguenza il recesso del contratto è da intendersi "per giusta causa" in quanto è stato spezzato "il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo". La donna non verrà né risarcita né reintegrata. L'azienda ha deciso comunque di non sporgere denuncia per diffamazione.