Dopo la condanna a tre anni di reclusione (già scontati), inflittale dalla Corte d'assise d'appello di Firenze nel processo per calunnia nei confronti di Patrick Lumumba, Knox sui social punta il dito contro la giustizia italiana e promette il ricorso in Cassazione
"Il sistema giudiziario italiano mi tormenta da 17 anni", Amanda Knox attacca la giustizia italiana sui suoi profili social. La critica arriva dopo che sono state depositate le motivazioni della sentenza emessa nei confronti della donna. Knox è stata condannata per calunnia ai danni di Patrick Lumumba, nell'ambito di uno dei filoni scaturiti dal processo per l'omicidio di Meredith Kercher, un crimine per il quale invece è stata completamente assolta.
Knox, nel suo post, punta il dito contro la Corte d'assise d'appello di Firenze che le ha inflitto tre anni di reclusione, già scontati con i quasi quattro passati in carcere prima di essere assolta per il delitto avvenuto a Perugia nel 2007. La persecuzione sarebbe iniziata "durante il mio interrogatorio e continua nei tribunali, più di recente nella motivazione che spiega perché mi hanno dichiarato colpevole di calunnia a giugno".
Al centro di quest'ultimo processo ci sono le affermazioni di Knox su Lumumba, all'epoca suo datore di lavoro in un pub della città umbra. In un memoriale, scritto pochi giorni dopo la morte di Meredith e il fermo arrivato perché sospettata dell'omicidio, Knox accusò Lumumba, un innocente, del delitto. Secondo i giudici di Firenze lo fece "per uscire dalla scomoda situazione in cui si trovava"e "per porre termine alle indagini, non potendo prevederne l'esito". La giovane americana "si trovava all'interno della casa al momento dell'omicidio e quindi ben sapeva" che lui "non c'era", conclude la Corte.
La difesa di Knox non ha accettato la sentenza di condanna per calunnia e ha già ipotizzato ricorso in Cassazione. E lei torna a difendersi: "Non ero presente a casa mia quando Meredith è stata assassinata, non sono stata coinvolta e non so più di quanto si possa dedurre dalle prove".
Si doveva stabilire, scrive Knox su X, "se un singolo documento, una nota o memoriale, che ho scritto per ritrattare le due dichiarazioni che sono stata costretta a firmare durante il mio interrogatorio, fosse diffamatorio nei confronti del mio amico e datore di lavoro, Patrick Lumumba". E prosegue: "Tutti, me compresa, ammettono di aver scritto il memoriale senza essere sollecitati, anche se vale la pena sottolineare che ero ancora sotto custodia della polizia e mi è stato comunque negato l'accesso a un avvocato e a un interprete ufficiale quando l'ho scritto".
La donna spiega che dopo ore era stata finalmente lasciata sola e ha iniziato a realizzare che le dichiarazioni firmate probabilmente non erano vere: "Ho provato a dirlo alla polizia, ma mi hanno ignorato. Così ho chiesto una penna e un pezzo di carta". Secondo Knox, la sentenza ignora quanto ha scritto successivamente alle accuse verso il datore. "Voglio chiarire che ho molti dubbi sulla veridicità delle mie dichiarazioni perché sono state fatte sotto la pressione di stress, shock ed estremo esaurimento", diceva. Per la donna, i giudici ignorerebbero anche quando ha scritto: "Chi è il vero assassino?" o "Non credo di poter essere usata come testimone di condanna". E conclude il post con una promessa. "State tranquilli: tornerò in Corte di Cassazione per combattere questa cosa".