"Ero drogato e depresso. Ce l'avevo con i politici". Il muratore calabrese oggi è pentito e spera in una nuova perizia per l'appello
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E' stato condannato a 16 anni di carcere dopo aver ridotto in fin di vita il brigadiere Giuseppe Giangrande fuori da Palazzo Chigi, nel giorno in cui si insediava il governo Letta. Oggi Luigi Preiti dice di essere pentito, chiede perdono e si giustifica dicendo: "Ero depresso, la mia vita era un disastro. In quelle condizioni si possono fare cose terribili".
Parla per la prima volta, il "pistolero" di Palazzo Chigi, e concede la sua intervista alla Repubblica, a un anno e tre mesi da quel giorno, il 28 aprile 2013, quando in piazza Colonna sparò colpendo due carabinieri, per poi tentare di suicidarsi con la sua Beretta 7.65. Disoccupato, 50 anni, oggi è nel carcere di Rebibbia, con una condanna per tentato omicidio plurimo, porto abusivo di arma clandestina, ricettazione.
Quando ha compiuto quel gesto, racconta, era "senza lavoro, senza soldi, non potevo vedere mio figlio. Oggi il peso di ciò che ho fatto e la pena che devo pagare mi opprimono la coscienza. E rendono buio il mio futuro".
Giura di essere pentito per quello che ha fatto, ferendo Francesco Negri e soprattutto riducendo in fin di vita Giangrande: "Ho sempre detto che se potessi mi sostituirei a lui, mi farei carico della sua sofferenza. Prego ogni giorno che possa guarire presto. Ho scritto a sua figlia. Quello che ho fatto è assurdo, la disperazione ti porta a fare cose pazzesche".
Dice che in questo anno di carcere lo hanno perseguitato gli incubi delle sue azioni, "le conseguenze di quel che ho fatto, le vittime. E la mia famiglia, mio figlio soprattutto. Ha solo 10 anni e non lo vedo mai". Ricorda che voleva colpire i politici "anche se non sapevo bene in che modo. Non avevo un piano. I nomi? Berlusconi, Bersani, Monti. Tutti avevano delle colpe...".
Perché allora sparare ai carabinieri? "Non ce l'avevo con loro. Mi sono fatto prendere dal panico. Non sono abituato a certe tensioni. Si è trattato di un fatto imponderabile". Dichiara di non aver agito per conto o su indicazione di nessuno e aggiunge: "Avevo tirato cocaina due giorni prima di partire per Roma. Nell'ultimo mese ne avevo assunte diverse dosi. Pur non avendone mai fatto uso prima. Mi faceva stare un po' meglio. Poi ripiombavo in uno stato depressivo ancora più forte". Ma... i soldi per comprarla? Non lavorava... "Quando riuscivo a fare la giornata in cantiere e mi pagavano, compravo piccole dosi".
E dei politici, cosa pensa oggi? "Senza l'appoggio dei politici non esisterebbe nessuna lobby di potere. Le banche, la grande industria, le speculazioni finanziarie, la mafia moderna. Galan e Scajola insegnano, solo per citare i casi più recenti".
E' dalla confusione e dalla disperazione che è nata in Preiti l'idea di agire in quel modo, di andare a Roma a sparare. "Ero già un'altra vittima della crisi. Un altro numero. 'Cresce il numero dei disoccupati', ripetevano i media. Ma tutto è rimato uguale, forse è pure peggiorato". Come è peggiorata la situazione della sua famiglia, aggiunge. "Con me in carcere per loro è ancora più difficile. Dopo la separazione ero tornato a Rosarno con i miei genitori. Lì le cose sono precipitate".
Se potesse tornare indietro, però, oggi Preiti chiederebbe aiuto alla sua famiglia. Secondo la condanna in primo grado Preiti, al momento dei fatti, era capace di intendere e volere. Ma adesso, in attesa dell'appello, il muratore calabrese dice: "Una perizia dice che al momento del fatto ero afflitto da una 'depressione maggiore' che ha inciso sulla mia capacità di intendere e volere. Spero in una nuova perizia che faccia davvero luce sullo stato in cui mi trovavo quella mattina".