L'ingegnere segnalava che era in atto una "perdita di resistenza superficiale del calcestruzzo" e che le piastre erano state "letteralmente corrose" da salsedine e inquinamento
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"Penso che prima o poi, e forse già tra pochi anni, sarà necessario ricorrere a un trattamento per la rimozione di ogni traccia di ruggine sui rinforzi esposti per poi coprire tutto con elastomeri ad altissima resistenza chimica". Così scriveva nel 1979 il progettista del ponte collassato a Genova, l'ingegner Riccardo Morandi, che rilevava i primi effetti di salsedine e inquinamento sulla struttura e lanciava già un concreto "allarme corrosione".
Il titolo della relazione datata 1979, come riporta il quotidiano La Verità, è "Il comportamento a lungo termine dei viadotti sottoposti a traffico pesante situati in ambiente aggressivo: il viadotto sul Polcevera, a Genova". "La struttura - scriveva Morandi - viene aggredita dai venti marini (il mare dista un chilometro) che sono canalizzati nella valle attraversata dal viadotto. Si crea così un'atmosfera, ad alta salinità che per di più, sulla sua strada prima di raggiungere la struttura, si mescola con i fumi dei camini dell'acciaieria (il vecchio stabilimento Ilva, ndr) e si satura di vapori altamente nocivi".
"Le superfici esterne delle strutture - segnalava l'ingegnere - ma soprattutto quelle esposte verso il mare e quindi più direttamente attaccate dai fumi acidi dei camini, iniziano a mostrare fenomeni di aggressione di origine chimica". Insomma, è già in atto una "perdita di resistenza superficiale del calcestruzzo".
Morandi accennava anche a non meglio definite "piastre" che "sono state letteralmente corrose in poco più di cinque anni", quindi nel 1972, e "hanno dovuto essere sostituite, con processi piuttosto complicati, con elementi in acciaio inox". L'ingegnere concludeva insistendo sulla necessità di proteggere "la superficie in calcestruzzo, per accrescerne la resistenza chimica e meccanica all'abrasione". E suggeriva l'impiego di resine e di elastomeri sintetici.