La vicenda riguarda Cristina Mazzotti, 18 anni: l'Anonima sequestri la fece sparire la sera della sua festa per il diploma, per poi ucciderla
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C'è una nuova inchiesta, la terza, sul rapimento a scopo di estorsione di Cristina Mazzotti, concluso con l'omicidio della 18enne. La giovane fu la prima donna ad essere rapita, 47 anni fa, dall'Anonima sequestri nel Nord Italia. Nel mirino della Procura di Milano ci sono ora quattro indagati della vecchia "mala" del capoluogo lombardo vicina alla 'ndrangheta. Il rapimento avvenne la sera della sua festa per il diploma, il primo luglio 1975.
Quattro indagati per omicidio volontario - Secondo quanto riferiscono il "Corriere della Sera", la "Stampa", la "Repubblica" e il "Fatto quotidiano", i pm milanesi Alberto Nobili e Stefano Civardi, in seguito al lavoro della Squadra mobile, contestano ai quattro indagati l'omicidio volontario della donna.
Il rapimento - Cristina stava rientrando a casa con alcuni amici nella sua villa di Eupilio (Como), quando la Mini Minor su cui viaggiava si trovo la strada sbarrata dai banditi. I malviventi trascinarono via la giovane e legarono gli altri. Il giorno dopo al padre Helios, un industriale dei cereali agiato ma non così ricco come la banda credeva, fu chiesto un riscatto di 5 miliardi di lire.
Il riscatto e il cadavere - L'uomo riuscì a mettere insieme un miliardo e 50 milioni che, un mese dopo, lasciò in un appartamento di Appiano Gentile in cambio della promessa della liberazione della figlia. Ma il primo settembre i carabinieri ricevettero una telefonata anonima: ai militari la voce all'altro capo del filo disse di scavare vicino a una carrozzina rotta nella discarica di Galliate (Novara). Lì fu trovato il cadavere.
Prigioniera in una buca - Le indagini avrebbero poi rivelato che uno dei carcerieri, Giuliano Angelini, nei giorni della prigionia, in una buca a Castelletto Ticino, aveva iniettato alla ragazza sia sonniferi, per sedarla, sia eccitanti, quando la faceva parlare al telefono con i familiari.
Le impronte trovate nell'auto - Subito la polizia scientifica individuò alcune impronte sull'auto dei rapitori, che però all'epoca non servirono a nulla. Solo un direttore di banca svizzero, insospettito da una operazione di 90 milioni di lire, diede alle forze dell'ordine delle informazioni consentendo di arrestare per riciclaggio di questa parte del riscatto uno dei banditi, Libero Ballinari, imboccando la pista giusta che, nel processo a Novara, portò nel 1977 a 13 condanne, otto delle quali all'ergastolo: carcerieri, centralinisti, riciclatori del secondo gruppo lombardo di fiancheggiatori.
Archiviazione nel 2012 - Non venne però individuato nessuno del primo gruppo calabrese di esecutori materiali. Nel 2007 una di quelle impronte venne abbinata al reggino Demetrio Latella, bandito già nella gang di Angelo Epaminonda. Il gip respinse la richiesta di arresto della Procura di Milano per mancanze di esigenze cautelari, salvo poi l'ammissione di Latella di essere uno dei sequestratori. Lo stesso chiamò poi in causa Giuseppe Calabrò e Antonio Talia che, indagati a piede libero, negarono tutto. Il caso fu archiviato nel 2012.
I tre fatti nuovi e la riapertura del caso - Oggi ci sono tre fatti nuovi: una sentenza della Cassazione nel 2015 ha indicato imprescrittibile il reato di omicidio volontario. Un esposto è stato riproposto da Fabio Repici, già avvocato dei Mazzotti e poi parte civile per la famiglia del magistrato torinese Bruno Caccia, ucciso nel 1983 in un delitto in cui, secondo Repici, avrebbe avuto un ruolo Latella. Inoltre i pm Nobili e Civardi, da poco nell'antimafia milanese, contestano a Latella, Talia e Calabrò, oltre all'incensurato Antonio Romeo, l'omicidio della giovane, nel presupposto che "segregandola in una buca senza sufficiente aerazione e possibilità di deambulazione, somministrandole massicce dosi di tranquillanti ed eccitanti", ne abbiano "così cagionato la morte" proprio mentre il padre pagava il riscatto. Tre di loro hanno scelto di non rispondere, Latella ha confermato le sue ammissioni.
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