Tre autobombe esplosero nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993: la prima in via Palestro a Milano, con 5 morti, la seconda e la terza alle chiese romane di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro
Sono passati trent'anni dagli attentati di mafia in via Palestro a Milano e alle chiese romane di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro. Nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 l'Italia fu sconvolta da tre autobombe in successione: la prima nel capoluogo lombardo, poco dopo le 23, che provocò la morte di 5 persone e il ferimento di altre 12; la seconda e la terza dopo mezzanotte, in due luoghi simbolo della Capitale e della Chiesa cattolica, con 22 feriti totali. Come ha ricordato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quegli attentati furono parte di una strategia terroristica che ha avuto culmine nell'uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1992 e che è proseguita fino a colpire siti storici del nostro Paese.
L'attentato in via Palestro a Milano - Ore 23 del 27 luglio 1993. Un gruppo di persone segnala a due vigili urbani che transitano in quel momento in via Palestro a Milano un'auto dalla quale esce del fumo. Vengono quindi chiamati a intervenire i vigili del fuoco, che pochi minuti dopo sono già sul luogo. Nel cofano c'è qualcosa di strano, un involucro di grosse dimensioni: pensano che sia una bomba e ordinano di evacuare la zona. È già troppo tardi: alle 23.14 l'ordigno esplode uccidendo uno dei due vigili urbani, tre vigili del fuoco e un uomo che dormiva su una panchina nel giardino pubblico vicino.
Le conseguenze - I morti sono dunque cinque: il vigile urbano Alessandro Ferrari (29 anni), i vigili del fuoco Carlo La Catena (25), Sergio Pasotto (34, che compiva gli anni proprio quel giorno) e Stefano Picerno (37), e il cittadino del Marocco Driss Moussafir (44). Altre 12 persone rimangono ferite.
Come ricorda il Quirinale nel volume Per le vittime del terrorismo nell'Italia repubblicana, l'esplosione frantumò i vetri delle case in un raggio di 200-300 metri, danneggiò il sistema di illuminazione pubblica e lesionò il muro esterno del padiglione di Arte contemporanea. L'incendio fu domato solo dopo diverse ore. All'alba esplose anche una sacca di gas formatasi sotto il padiglione, distruggendo dipinti e danneggiando la villa Reale, sede della galleria d'Arte moderna.
Il doppio attentato a Roma - È poco dopo la mezzanotte, precisamente le 00.04. Un'autobomba, posta nell'angolo tra il palazzo Lateranense e la testata del transetto della basilica di San Giovanni, esplode seminando distruzione e rovina. La deflagrazione raggiunge il palazzo d'abitazione annesso alla chiesa, il battistero di San Giovanni in Fonte, la canonica capitolare, alcuni palazzi annessi all'università Lateranense e l'ospedale Sa Giovanni.
Non finisce qui. A pochi minuti di distanza, alle 00.08, esplode una seconda autobomba davanti alla facciata dalla chiesa di San Giorgio in Velabro. Anche qui i danni sono ingenti, tanto da costringere la chiesa a chiudere ai fedeli per tre anni. I due attentati provocano il ferimento di 22 persone. Diverse le ipotesi sugli obiettivi dei mafiosi: un'intimidazione verso l'allora presidente del Senato Giovanni Spadolini e il presidente della Camera Giorgio Napolitano, futuro presidente della Repubblica, o anche un avvertimento al Vaticano dopo che papa Giovanni Paolo II, il 9 maggio 1993, pronunciò nella valle dei Templi un'invettiva contro Cosa nostra.
I colpevoli - Secondo le sentenze, a ideare e progettare gli attentati furono i vertici di Cosa nostra di allora, da Totò Riina a Bernardo Provenzano passando per Matteo Messina Denaro, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca. Parecchi i nomi dei mafiosi indicati come esecutori materiali degli attentati. Restano tuttavia zone d'ombra, come ad esempio l'identità dei basisti nella strage di via Palestro.
L'obiettivo di Cosa nostra - Le sentenze hanno ritenuto i mafiosi responsabili di una sorta di "stato di guerra contro l'Italia". Cosa nostra tentò di distruggere il patrimonio storico e artistico italiano per imporre allo Stato di venire a patti su alcune questioni, tra cui la modifica della legge sui collaboratori di giustizia e l'eliminazione dei trattamenti penitenziari di rigore che non permettevano di tessere rapporti tra i capi detenuti e i complici ancora in libertà.
Come spiegato dal capo dello Stato, "si è trattato di una sfida alla nostra convivenza civile, di un tentativo di minacciare e piegare lo Stato democratico, costringerlo ad allentare l'azione di contrasto al crimine e il rigore delle sanzioni penali. Fu un piano eversivo che è stato sconfitto".