Per la Suprema Corte, gli insulti via WhatsApp sono lesioni della reputazione, quindi perseguibili penalmente
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Insultare qualcuno su una chat di gruppo è diffamazione e non ingiuria. Lo dice la Cassazione, precisando come gli insulti via WhatsApp costituiscano, in questo modo, reato penale e non un semplice illecito civile. Secondo i giudici, le provocazioni, se lette anche da altri, sarebbero delle lesioni della reputazione che si collocano "in una dimensione ben più ampia di quella tra offensore e offeso".
La Suprema Corte si è così espressa sul caso di un tredicenne della provincia di Bari accusato di aver inviato messaggi oltraggiosi a una coetanea su una chat di gruppo. Il gip aveva dichiarato il non luogo a procedere perché il ragazzo, al momento dei fatti, non aveva compiuto ancora 14 anni. I genitori hanno fatto comunque ricorso perché, secondo loro, il figlio doveva essere assolto nel merito, dal momento che le offese rivolte alla compagna non potevano essere considerate diffamazione, ma ingiuria, che non è più perseguibile penalmente dal 2016. Secondo i difensori, la ragazza aveva letto i messaggi e quindi poteva rispondere subito alle offese. La Cassazione non ha però accolto il ricorso.