A “W l’Italia”, programma di approfondimento di Rete Quattro, il pentito di Cosa Nostra chiede aiuto allo Stato italiano
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Nel 1993 Santino Di Matteo fu uno dei primi mafiosi a parlare e ad abbandonare il clan di Totò Riina. La scelta di svelare i segreti sulla strage di Capaci e sull'uccisione dell'esattore Ignazio Salvo costò la vita a suo figlio Giuseppe, strangolato e poi sciolto nell’acido l’11 gennaio 1996.
A “W l’Italia” il collaboratore di giustizia commenta quella decisione: “Quando uno collabora con lo Stato è difficile che Cosa Nostra gli lasci un figlio. Io lo sapevo benissimo che quando uno viene sequestrato non torna più”. All’epoca pur essendo sotto protezione, Di Matteo scappò per cercare suo figlio: “Io lo dovevo salvare. Ero vicino: abbiamo sbagliato casolare. Per questa mia scelta mi hanno tolto la protezione”.
“Io ho ucciso: la guerra di mafia l’ho fatta. Ho sbagliato: però io in questo sbaglio che ho fatto mi devi dare atto che ho fermato la macchina” commenta il collaboratore di giustizia. Ora Di Matteo è l’autista di un prete che si batte contro la mafia ricevendo molte minacce di morte: “Lui difende me e io difendo lui” racconta il pentito.
"Io mi rivolgo al capo della magistratura e al capo della Repubblica: mi dovete aiutare. Io ho dato la vita, ho perso mio figlio, per aiutare lo Stato” chiede il pentito. Il collaboratore di giustizia commenta anche la situazione odierna: “Oggi la Cupola non c’è più, ci stanno quattro scappati di casa. L’unico pericolo che c’è è Messina Denaro e se lo Stato lo vuole veramente può essere che riesce a catturarlo”