Per 43 anni latitante, fu da giovane il braccio armato e sanguinario di Luciano Liggio. Divenne il boss dei boss dopo l'arresto di Totò Riina e trasformò la mafia
Per la determinazione con cui si muoveva si era guadagnato l'appellativo di "Binnu u tratturi". "Sparava come un Dio" pur avendo un "cervello di gallina", diceva di lui Luciano Liggio. Eppure Bernardo Provenzano fu il capo di Cosa Nostra dopo l'arresto di Totò Riina. Era inafferrabile, per ben 43 anni la polizia gli ha dato la caccia. Un sanguinario che però traghettò la mafia dalle stragi agli accordi politici.
Terzo di sette figli di Angelo, bracciante agricolo, non finisce la seconda elementare per seguire il padre nei campi. Giovanissimo, si unisce al mafioso Luciano Liggio, che lo affilia alla cosca locale. Subito la sua fama è quella di terribile killer sanguinario e di ottimo tiratore di pistola. A inizio anni Sessanta è spietato protagonista della prima guerra di mafia palermitana contro il clan Navarra, quando, nel pieno del conflitto, si registra più di un omicidio al giorno.
La latitanza - Diventa latitante il 18 settembre 1963: i carabinieri di Corleone lo denunciano per l'omicidio di Francesco Paolo Streva, uomo del clan Navarra, commesso una settimana prima. In un rapporto protocollato dalle forze dell'ordine, Provenzano viene definito senza mezzi termini "elemento scaltro, coraggioso e vendicativo che si sposta con due pistole alla cintola".
Nel 1993 diventa il boss dei boss - Nel 1993, dopo l'arresto di Riina, "Zu Binnu", prende le redini di Cosa Nostra, cambiando radicalmente il modo d'agire tipico della mafia corleonese. La sua ricetta? La "mediazione", con l'infiltrazione costante nelle istituzioni e l'obiettivo (poi raggiunto) di far diventare la mafia quasi invisibile e meno cruenta. Il suo volto rimane ignoto anche ai picciotti: il suo mezzo di comunicazione sono i pizzini, bigliettini di carta con appunti spesso sgrammaticati e con riferimenti religiosi con gli ordini.
Agli uomini che dopo un'indagine lunga e metodica lo stanarono in una masseria di Montagna dei cavalli, nelle campagne di Corleone, la mattina dell'11 aprile 2006 si presentò un uomo minuto e dimesso. E subito colpi' il contrasto tra il mito di un boss astuto e sanguinario, che da tempo lo inseguiva, e la vita spartana di una persona all'antica che apprezzava ricotta e cicoria.
I pizzini e gli "spifferi" - Lo circondava la fama del capo inafferrabile che aveva eretto attorno a sè una barriera invalicabile. Sospettava di tutto e di tutti. Raccomandava agli amici di parlare a bassa voce e di controllare la presenza di "cimici" e telecamere nascoste. Mandava i suoi ordini con i celebri "pizzini" codificati e vergati, in una lingua approssimativa ma molto espressiva, con l'inseparabile macchina per scrivere. In quei foglietti era rappresentato tutto il mondo di Provenzano, quello che il pentito Angelo Siino ha descritto come un "sistema" di imprese, appalti, affari, soldi riciclati nei canali dell'economia legale. E sullo sfondo una rete di relazioni e mediazioni con la politica.
Il rapporto con Totò Riina - A Provenzano, al fianco di Riina, gli era toccata la parte del secondo. E nella stagione delle stragi quella di comprimario. All'esterno la sua lealtà cementava l'immagine di compattezza di Cosa nostra. "Riina e Provenzano sono la stessa cosa" si diceva. In realtà esprimevano due diverse visioni del governo mafioso: irruento e sbrigativo Riina, accorto e riflessivo Provenzano. Quest'anima "moderata" potè emergere solo dopo l'arresto di don Totò, il 15 gennaio 1993. Era il colpo più duro per la mafia giunto al culmine di una controffensiva dello Stato innescata dalle inchieste di Falcone e Borsellino e consolidata dalle condanne del maxiprocesso. La mafia aveva reagito scatenando l'offensiva stragista del 1992-93. Ma, come diceva Riina, "faceva la guerra per potere fare la pace".
La parte del traghettatore - Toccò a Provenzano gestire questa fase dello scontro. E fu lui a correggere l'originaria strategia del terrore. Indossò i panni del "traghettatore", fermò gli attacchi, fece tacere le armi. La tecnica della "sommersione" serviva a cogliere due obiettivi: consentire alla mafia di tornare ai suoi affari tradizionali e aprire una "trattativa" con lo Stato anche a costo di "consegnare" Riina, come lo stesso boss era propenso a sospettare durante le sue confidenze in carcere intercettate.
La mafia con Provenzano cambiò pelle - Nelle mani di Provenzano l'organizzazione cambiò pelle relegando in secondo piano la sua forza militare per dare spazio alla cooptazione di fiancheggiatori e professionisti insospettabili e ampi settori della politica. Le inchieste hanno messo a fuoco questa rete di interessi, che spaziano dalle opere pubbliche alla sanità, e si sono concluse con numerose condanne.
I segreti che si porta nella tomba - Il boss corleonese era certamente depositario di tanti segreti che si porta nella tomba. I magistrati hanno tentato di stimolare i suoi ricordi. Fedele alla sua storia, Provenzano si è presentato come un vecchio confuso e smemorato. E in effetti alla perdita di potere dopo l'arresto si è aggiunto il lento declino fisico culminato ora con la morte. La sua uscita di scena consegna ora il testimone della continuità a Matteo Messina Denaro, con il quale scambiava messaggi e "pizzini", che della mafia interpreta la versione più moderna e più spregiudicata.