Dopo che il Regno Unito ha istituito un ministero ad hoc, il professor Ugo Morelli, docente di psicologia, analizza le cause della solitudine che dilaga anche nel nostro Paese
di Leonardo Cavallo© -afp
"Noi siamo degli esseri intersoggettivi, non individuali. La solitudine diventa un problema perché è una deprivazione di ciò che è costitutivo del nostro essere: la relazione". Così Ugo Morelli, psicologo e docente universitario, a proposito di quella che è una vera e propria piaga sociale, tanto che il Regno Unito ha istituito un ministero della solitudine. Secondo Eurostat, l'11,9% degli italiani sopra i 16 anni non ha nessuno con cui parlare dei propri problemi personali. "Siamo tutti connessi ma molto soli", spiega Morelli.
Perché?
Le ragioni sono tante, ma riconducibili a tre categorie. Innanzitutto l'indifferenza è aumentata man mano che cresceva la nostra coscienza di soggetti planetari. Siamo diventati tutti abitanti del mondo, ma portiamo addosso un senso di distanza dai fenomeni che accadono. Un secondo aspetto è quello economico: l'iperliberismo economico ha esasperato l'individualismo. Abbiamo vissuto una crisi profonda di tutti i sistemi di intermediazione sociale e l'individualismo, cioè la concentrazione sul singolo come soggetto di riferimento dei consumi e come responsabile di se stesso e del proprio destino, ha prodotto molta solitudine. Il terzo fattore è la crisi dei legami sociali: le forme di vicinato, di convivenza, di socialità urbana ma anche la coscienza sindacale e sociale, oggi sono in grandissimo declino. Tutto questo ha comportato un forte ritiro nel privato e di conseguenza un effetto di solitudine molto potente.
Quindi l'interesse verso gli altri, in particolare gli anziani, è solo un'illusione?
Si, oggi c'è una grande industria degli anziani, che rappresentano una grande fonte di business. Non c'è un piccolo paese che non abbia una casa di riposo e queste sono generalmente privatizzate. In generale, non trovo che nelle famiglie contemporanee vi sia un'effettiva forma di affettività solidaristica e quindi un riconoscimento del valore della presenza dei vecchi. C'è l'esibizione di una patina moralistica tutta italiana, quella del mito dell'attenzione alla famiglia, però nella pratica le cose non funzionano così.
Un esempio?
Molti infermieri con cui ho parlato per lavoro mi hanno confermato che c'è un'affermazione che si fa immediatamente quando si tratta di occuparsi di una persona: "Quanti anni ha?". Questo significa che se uno ha più di ottanta'anni l'attenzione verso di lui cala e si comincia a fare un calcolo economico della speranza di vita. Ovviamente ci sono tante famiglie che si prendono cura amorevolmente dei propri anziani ma in molte altre questo non accade.
E' sempre stato così?
Prima era diverso: fino agli anni '70 noi avevamo un valore riconosciuto nei cosiddetti anziani. Socialmente la loro era una funzione importante, di saggezza e di guida. Poi è subentrata una visione che relega la vita "che conta" nella fascia della vita lavorativa. Su questa concezione ha influito anche l'allungamento esponenziale della vita media: il valore dell'età è diventato inversamente proporzionale all'età stessa. E questo è diventato un fatto scontato, normale. Si tratta di un autentico processo di emarginazione sociale, di cui è responsabile la nostra intera società.
E' la "cultura dello scarto" di cui parla papa Francesco?
L'atteggiamento sociale, soprattutto verso gli anziani, è quello di marginalizzazione e di esclusione. Questo è diventato cultura e la cosa che fa paura è che lo diamo per scontato. Oggi c'è una ridicola propensione giovanilistica nella nostra società: è una società di “adultescenti”, in cui chi ha una certa età fa di tutto per apparire più giovane. La parola vecchio e la parola morte sono state escluse dal nostro vocabolario e questo è molto grave perché una comunità così è psicotica: negare queste due realtà presenta sintomi patologici.
Questo dilagare della solitudine è un fenomeno arrestabile?
E' arrestabile ma richiede una cultura nuova e un investimento pubblico che la sostenga. C'è bisogno di un riorientamento educativo della popolazione, che dev'essere incentivato. Non possiamo immaginare di lasciare un problema così importante alla buona volontà dei familiari. La salute è un bene pubblico non solo privato. La nostra Costituzione recita: "E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana". La realizzazione individuale vale fino a quando uno è vivo, mica fino a quando uno ha quarant'anni.
Che cosa si può fare per migliorare la situazione?
Abbiamo bisogno di una politica pubblica che non sia indirizzata solo dall'alto verso il basso, ma che alimenti le reti sociali orizzontali e le reti corte che portano all'impegno sociale distribuito. Si potrebbe anche combattere l'enorme disoccupazione giovanile con interventi civili nel campo dell'assistenza alle persone anziane. Adesso che ci sono le elezioni non c'è politico che non balbetti qualcosa che ha a che fare con gli anziani, perché sono una straordinaria fonte di voti, ma poi sappiamo come va a finire.
Da docente come vede il rapporto tra giovani e solitudine?
Io lavoro in università e le posso testimoniare che il livello di solitudine profonda all'interno di quella che sembra un'apparente socialità è molto più elevato di quando io ero studente. Non c'è più solidarietà o capacità di aggregarsi.
Come valuta la creazione di un ministero per la solitudine nel Regno Unito?
A me sembra una trovata propagandistica orientata al consenso. E' come se io facessi un ministero delle alluvioni: non devo fare un ministero delle alluvioni, devo fare un ministero dell'Ambiente che tuteli e protegga l'ambiente. Il fatto che venga riconosciuto il problema è positivo, ma mi pare che il modo di affrontarlo sia discutibile, perché non devo amministrare la solitudine ma prevenirla. Per far questo i misteri li abbiamo già; dovrebbero funzionare meglio.
Perché, in ultima analisi, l'essere umano ha bisogno di non restare solo?
Noi siamo degli esseri intersoggettivi, non individuali. Dalla 14esima settimana di gestazione, come ormai verifichiamo con risonanza magnetica ed ecografia, noi tendiamo esplicitamente all'intersoggettività. L'individuo nasce da una relazione, che genera la soggettività. Per noi esseri umani la relazione è pre-intenzionale, pre-volontaria e pre-linguistica. Dobbiamo convincerci di questo: siamo animali sociali. La solitudine diventa un problema perché è una deprivazione di ciò che è costitutivo del nostro essere: la relazione. Grazie ai "neuroni specchio" sentiamo quello che sente l'altro e sappiamo quello che l'altro sta provando senza bisogno di chiederglielo. Questo rovescia il ragionamento: avremmo bisogno di spiegare come mai, pur essendo naturalmente soggettivi ed empatici, siamo capaci di negazione e indifferenza.