La Grande Guerra vista attraverso gli occhi di un giovanotto della Basilicata mandato a combattere su montagne lontane un'Italia intera, in nome di un'Unità nazionale sentita come oggi, forse, non riusciamo a capire. Tgcom24 propone alcune pagine inedite, in occasione del centenario della fine del conflitto
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Il mio bisnonno era soldato. Ha fatto la Guerra, quella Grande, quella del '15-'18, finita l'11 novembre di cent'anni fa. Chissà in quanti abbiamo pronunciato questa frase, pervasi da una qualche sfuggevole forma d'orgoglio. Sfuggevole perché non possiamo avere idea, oggi, di quella sofferenza, di quell'abisso di dolore. Per nostra fortuna, però, ne rimane traccia nei diari, nelle lettere, nelle testimonianze dal fronte. Fanti contadini, soldati ragazzini e, come il nonno di mia madre, giovanotti mandati al massacro. Dalle colline della Basilicata alle montagne del Carso, con in mezzo un'Italia intera. Era stato detto loro di andare in guerra per proteggere le loro case, per dare un futuro italiano alle loro famiglie. I miracoli della propaganda. Ma loro non batterono ciglio e andarono in guerra in silenzio, come nonni prima del tempo, mettendo un piede davanti all'altro, scendendo le scale di casa come se andassero dal tabaccaio. Il sacrificio del mio bisnonno è il sacrificio di tutti i nonni, i padri, i figli che hanno "fatto" la Grande Guerra. E che l'hanno affidata a pagine ingiallite e macchiate di sangue. Ma intatte, ordinate, inestimabili.
In guerra era scesa una nazione, non più una mera entità geografica, non più una terra di conquista divisa e squassata. Dalle parole del caporale Giosuè Catapano da Melfi traspare questo. Nella descrizione della chiamata all'attacco del suo plotone, scrive: "Mentre ancora rombava il cannone nemico, mentre le granate si susseguivano e cadevano a breve distanza da noi, il nostro superbo ed agile capitano scatta e ci dice: «Coraggio, figlioli, viva l'Italia» (...) Sono le 12 [del 9 giugno 1915] e, mentre scrivo, di lontano si sente l'eco di varie grida, di mille voci. In un attimo il nostro energico capitano dà l'allarme e, cosa vedi?, tutti scattiamo come molle, colle baionette inastate e di corsa sfrenata verso il nostro fronte gridando: 'Savoia! Savoia! Viva il Re, viva l'Italia, abbasso l'Austria". Il senso del dovere, poi, era talmente pregante da sovrastare i bisogni primari: "In un attimo divorammo il rancio (cioè la carne nel brodo), ognuno tracannò una borraccia piena d'acqua (tant'era la sete) e via ad avvicinarsi alla linea di fuoco".
Quando il bisnonno Giosuè giunse al fronte, il Piave aveva mormorato già da qualche giorno. La prima pagina del diario riporta la data del 30 maggio, con l'arrivo delle truppe a San Vito al Tagliamento. Che fortuna saper leggere e scrivere, avrà sicuramente pensato. Che fortuna aver potuto comunicare la soggezione di fronte a quella montagna assassina, ma bellissima. Il soldato Catapano era un giovanotto del 1888 arruolatosi in fretta e furia nel '15, fresco dei suoi 27 anni compiuti a febbraio. In guerra e al fronte ci rimase poco, alla fine: 14 mesi. Ma la sue sofferenze hanno doppiato la "vittoria mutilata" e il Trattato di Versailles. Il 28 luglio 1916 rimane ferito nello scoppio di una "maledetta e rabbiosa granata": una scheggia gli si conficca nella gamba destra. Viene ricoverato al Rizzoli di Bologna. Vi resta quattro interminabili anni. Nel frattempo i suoi fratelli, Angelo e Peppino, stavano ancora difendendo il fronte italiano. Fortunatamente anche loro furono tra quelli che tornarono a casa.
Il passaggio in cui racconta l'accaduto è terribile, quasi magnifico nella sua crudezza, soave nella sua semplicità. Ed è contenuto nell'ultima pagina del diario. "Verso le 9, mentre la mia mente volava ai miei cari di cui non avevo nuove da due giorni, mentre si presentava alla mia mente la cara immagine di una mia nipotina, una maledetta e rabbiosa granata, fendendo l'aria, fischiando e divorando l'orizzonte, mi colpì in pieno spezzandomi e portandomi via la gamba destra da qualche centimetro più su del ginocchio. E' inutile dirvi dell'orribile ferita e del sangue che usciva a fiotti. Non fu possibile essere trasportato subito al posto di medicazione giacché v'era una vera grandinata di proiettili. Così, dopo poco più di mezz'ora, vedendo che s'era un po' calmata quella orribile tempesta, mi adagiarono pian piano in barella e in mezzo a più di trenta miei compagni e amici fui trasportato al posto di medicazione fra i pianti e lo sconforto di tutti. Mi baciai ripetutamente con tutti quei bravi giovani che se ne ritornarono, piangendo, alle trincee".
In una cartolina postale inviata il 16 settembre 1920 a colei che sarebbe diventata sua moglie soltanto due mesi dopo, il nonno Giosuè dedica alla futura nonna Gisella poche, pochissime parole: "Gisa, da chi rientra dopo quattro lunghissimi anni". Durante la degenza a Bologna, aveva deciso di lasciarla, Gisella. Non voleva legarla per tutta la vita a un mutilato di guerra. Inutile dire che la bisnonna non ne volle sapere. Lo sposò senza il minimo ripensamento. Così mia madre e i miei zii l'hanno conosciuto con la gamba di legno. Nelle loro orecchie rimbomba ancora il rumore sordo e cadenzato del suo passo.
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Con la stessa andatura, e "con l'anima cadavere", anni addietro Giosuè aveva vagato in terra straniera, in un'Italia a lui sconosciuta, mitizzata dalla follia interventista e in cui si combatteva per strappare anche un singolo spuntone di roccia al nemico. Una carovana alienata di militari passava per "paesetti di cui non ricordo il nome", minuziosamente descritti con una forma impeccabile. I "visi mesti e smunti" delle famiglie che abbandonavano le loro "ridenti cascine", donne "dai capelli scarmigliati con bimbi attaccati alle mammelle; ragazzi scalzi, ignudi, sudici. Scene strazianti!". E ancora: "Paesi deserti, campagne isolate, abitanti allontanati per paura" in un Friuli che aveva trasformato il Carso Isontino e l'intera fascia che va da Gorizia alla costa adriatica in un vero e proprio cantiere.
Ce n'è larga traccia anche nel diario, in alcuni punti dove il bisnonno immortala il lavoro e l'attitudine dei suoi compagni d'armi: "Andai in giro per tutte le cascine circostanti a requisire tavoli, pali e materiale occorrente pel blindamento delle trincee dell'avanguardia. In men di un'ora requisimmo tavoli, pali, tronchi d'alberi già tagliati per farne legna, porte vecchie, insomma quanti oggetti utilizzabili ci capitavan nelle mani". Le trincee e gli avamposti erano monumenti allo spirito d'adattamento ma, agli occhi di chi ha fatto della ristrettezza uno stile di vita, parevano un'espressione di agiatezza o addirittura di lusso. Il 18 giugno il soldato Catapano annota: "Sono incantevoli le tre gradinate con a fianco gli appoggi fatti con delle asticelle di legno inchiodate su grossi pali fissati nel terreno, costruite dagli ingegnosi nostri zappatori. A una certa distanza poi vi è una gran fossa circondata e coperta da grossi tavoli che si è adibita per latrina. All'ombra del folto boschetto sono adagiati due lunghissimi tavoli corredati da lunghissime panche, dov'è il nostro ritrovo in alcune ore della giornata serbate per la corrispondenza e per un po' di conversazione; ed eccovi il «circolo dell'unione». Più a destra la baracca-salotto del capitano che, chiusa ermeticamente da spessi tavoli, dà l'aspetto di un salottino di campagna con davanti un tavolino corredato da quattro sedie su cui, all'occasione, si scrive qualche rapportino e, a suo tempo, si consuma la mensa degli ufficiali".
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Il contesto - Dopo il primo avanzamento in territorio asburgico da parte della Terza Armata, il generale Luigi Cadorna ordina infatti la costruzione di una prima linea difensiva arretrata. Nel luglio del 1915 circa 65mila operai iniziano a lavorare lungo la direttrice che taglia i fiumi Versa, Torre e Isonzo. Vengono create delle teste di ponte all'altezza di Romans, Villesse e Pieris e creati i primi campi trincerati di fronte a Gorizia e Monfalcone. Nei mesi successivi, nei paesi della pianura friulana, che formavano la retrovia, si approntano piccole difese formate da trinceramenti e appostamenti per armi pesanti e non collegate tra di loro. E' proprio in questo scenario "sperduto" che il soldato Catapano si ritrova ad avanzare, il più delle volte nottetempo per cercare di sfuggire all'occhio nemico.
Ed è proprio la riva sinistra dell'Isonzo quella che l'8 giugno 1915 andava difesa da una probabile avanzata degli austro-ungarici. "(...) è quella una posizione importante, sarebbe un'audacia lasciarla deserta. Lì a poca distanza c'è il ponte sull'Isonzo, il nemico potrebbe benissimo accedervi senza alcuna resistenza gli si opponga".
Andare in guerra per il bisnonno ha voluto dire anche provare l'imbarazzo di essersi trovato a comandare soldati più vecchi di lui. I nostri reparti erano infatti comandati perlopiù da 19enni, studenti di scuole superiori e pertanto "qualificati" dall'istruzione a sovrastare padri di famiglia analfabeti (o semi) che avevano di certo più esperienza e più battaglie sul groppone. Un esercito governato dalla burocrazia, tradizionalista, dove l'iniziativa era scoraggiata e dove, come disse il generale Capello, "l'artiglieria contava più avvocati che ingegneri".
Lui era uno di quelli che erano tornati a casa. Senza fanfare, senza onori, se non quello - profondissimo - che ancora gli tributa la sua famiglia. Era tornato come si torna dal tabaccaio dopo aver comprato le sigarette. Il giorno dopo il rientro dal fronte, il nonno era già nel suo negozio a vendere le stoffe. La guerra aveva messo in pausa la sua vita, e lui non ha aspettato un secondo a schiacciare "play" per riprendere tutto esattamente da dove aveva lasciato. Parlava poco già prima del '15, figuriamoci dopo. Le sue prime parole, quel pomeriggio in cui si è restituito alla famiglia, sono state: "Il negozio è in ordine?". Niente convenevoli. La guerra gli aveva tolto anche quelli. Come ha tolto 650mila nonni a chissà quanti figli che non sono diventati nipoti. E io che nipote invece lo sono stato, e a doppio, desidero che la mia fortuna sia quella di tutti, che la gente, attraverso queste poche pagine, ricordi o scopra chi erano i nostri nonni e di quale forza sono stati capaci. Il mio nonno è il vostro, è il nonno di tutti. Dell'Italia che ha gettato il fucile ed è tornata a casa. E di quella che è caduta, per non morire mai più.