"Ho sbagliato a sottovalutare la crisi che stavo attraversando", ha aggiunto. Si annuncia un processo-lampo
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Monsignor Carlo Alberto Capella, accusato di pedopornografia, ha ammesso gli "atti compulsivi di consultazione impropria di internet". La "confessione" è arrivata durante la prima udienza nel Tribunale Vaticano contro l'ex diplomatico, il quale ha spiegato di aver agito in quel modo perché in "crisi" a causa del suo trasferimento a Washington. "Ho sbagliato a sottovalutare la crisi che stavo attraversando", ha aggiunto. Si annuncia un processo-lampo.
Oggi, oltre all'interrogatorio dell'imputato, sono stati ascoltati due testimoni, mentre per un terzo testimone, lo psicologo Luigi Berta, assente, è stata acquisita la relazione. Sabato la seconda udienza nella quale sono attesi gli interventi del Promotore di Giustizia, quello della difesa. Se vorrà monsignor Capella potrà fare le sue dichiarazioni spontanee a conclusione. Non è esclusa una sentenza in tempi brevissimi. Le immagini incriminate sono tra le 40 e le 55 e comprendono fotografie, video e "shotas", immagini pornografiche di fumetti giapponesi. In tutte ci sono minori. Gli scambi di queste immagini sono transitate nelle chat private del social Tumblr sul quale il diplomatico aveva aperto un account.
"Monsignor Capella cercava immagini di ragazzi tra i 14 e i 17 anni", ha detto l'ingegnere Gianluca Gauzzi della Gendarmeria vaticana, che ha eseguito gli accertamenti informatici ed è stato ascoltato come testimone. Ma tra il materiale sotto accusa c'è anche "un video con un bambino molto piccolo in atti espliciti". Immagini che non si trovano - ha spiegato l'ingegnere - facendo semplici ricerche sui motori del web. L'altro testimone è stato il medico psichiatra Tommaso Parisi, che ora lo ha in cura e che parla di una persona "collaborativa". Ma Capella, è emerso, ha collaborato anche alle indagini, quando ha messo a disposizione i suoi dispositivi (cellulari, pennette Usb e hard disk) e tutte le password.
Parla della sua vita sacerdotale cominciata 25 anni fa in una parrocchia a Cantù, Milano, dove faceva il viceparroco e si occupava di ragazzi e giovani nell'oratorio. Ma "questa morbosità - ci tiene a precisare parlando del suo passato - non ha mai caratterizzato la mia vita sacerdotale e le relazioni con i ragazzi". Poi la proposta dell'allora arcivescovo di Milano, il card. Carlo Maria Martini, di entrare nella diplomazia vaticana. Gli studi all'accademia che forma i Nunzi, un passaggio in India e a Hong Kong, poi diversi anni a Roma in Segreteria di Stato dove si occupa di dossier importanti, dalla normativa antiriciclaggio all'istituzione dell'Aif. Anni felici in cui faceva "squadra" e nei quali stabilisce "relazioni fuori e dentro il Vaticano".
Poi la proposta di andare alla Nunziatura di Washington, una delle sedi diplomatiche più prestigiose. Lì, dice lui, entra in crisi. "All'inizio del settembre 2016 mi trovo negli Usa senza entusiasmo ma collaborativo". I primi mesi con poco lavoro e il serpeggiare del "conflitto interiore, del senso di vuoto, dell'inutilità". A più riprese sia l'accusa, Gian Piero Milano e Roberto Zanotti, che il Presidente del Tribunale Giuseppe Dalla Torre, gli chiedono come sia possibile passare da una crisi a quelle chat, ma lui, in aula con il suo clergyman, si limita a dire: "Saper dare alle crisi interiori nel momento stesso in cui una persona le vive non è facile". Scandisce le parole, forse preparate da tempo o forse frutto della sua esperienza diplomatica, paradossalmente secondo lui all'origine del suo disagio. E non nega un commento contro l'organizzazione del lavoro in Vaticano: "Rilevo con sobrietà che l'unico vero ruolo in una Nunziatura, dopo quello del capo missione, è ricoperto dal primo consigliere". E lui non era né l'uno né l'altro.