INTERVISTA TRA I FORNELLI

Filippo La Mantia: eccellenza e resilienza

La crisi come opportunità, la professionalità e la caparbietà i punti di forza per rinascere: istantanea di un periodo particolare nel racconto di uno dei cuochi più amati

26 Feb 2021 - 07:00
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Filippo La Mantia non si è mai definito chef, ma cuoco e oste. Siciliano Doc, nato a Palermo, la sua è una cucina di tradizione, dai sapori forti e decisi. A causa della pandemia e dei costi troppo alti, ha dovuto chiudere il suo ristorante in piazza Risorgimento a Milano, ma poi è arrivata una bella notizia: la proposta di condividere la cucina del Bulk di Giancarlo Morelli a Milano, collega e amico. Qui, Filippo La Mantia prepara i suoi piatti più celebri per l’asporto e il delivery.

Una collaborazione che funziona, un nuovo modello di co-cucina, in attesa di capire cosa ne sarà del mondo della ristorazione in generale.

Quali sono le sensazioni e i pensieri che ti suscita la parola “Covid”?

Sinceramente non l’ho mai nominata perché mi fa molta impressione. Durante il primo lockdown di marzo, ho vissuto questa situazione con grande speranza, come credo tutti: pensavo fosse una parentesi che sarebbe passata velocemente. Ma a fine aprile mi chiamò l’Ospedale di Niguarda, iniziai a produrre pasti per loro nelle mie cucine con i miei cuochi e andando in ospedale mi sono reso conto di che cosa fosse realmente il Covid. Ti rendi conto che tutte le certezze che avevamo si sono dissolte, che tutto ciò che avevamo costruito si è ridimensionato, se non annullato e che la pandemia ha messo in ginocchio il mondo intero.

Come hai reagito alla chiusura e, in seguito, alla riapertura dei ristoranti?

Quando abbiamo riaperto a maggio, con tutte le precauzioni e messe in sicurezza in cui ho investito parecchi soldi, come tutti i miei colleghi del resto (tra le tante cose, il rifacimento degli impianti di condizionamento, il distanziamento dei tavoli, la sanificazione due volte al giorno dell’intero locale, 36 dipendenti da gestire), era come se avessi dovuto ricominciare da capo. Non avendo soci, né sponsor, insieme ai miei ragazzi, ho dovuto rimboccarmi le maniche.

Quando hai compreso la possibilità di una nuova strada?

Fortunatamente, il mio ristorante era sempre molto frequentato, nonostante avessimo perduto il 45% dei coperti per il distanziamento. Ma ciò che manteneva in vita il locale erano gli eventi: ne facevamo 80 l’anno e tra questi c’erano i brunch del sabato e della domenica, frequentati da una media di 250 persone.

Quando e come hai impostato il delivery?

Avevo cominciato ad impostare il servizio delivery già da prima del lockdown, a febbraio, tramite la nuova piattaforma Cosaporto.it. Sono amici, consegnano in modo impeccabile, con le auto e mi sono trovato bene fin da subito. Ovviamente l’ho mantenuto durante il lockdown e durante la prima riapertura. Quando abbiamo richiuso a novembre, ho deciso di non riaprire più e lasciare i locali del ristorante poiché non potevo più mantenerlo senza gli eventi. Ho continuato, però, a lavorare fino al 31 dicembre, e molto con il delivery.

E poi cosa è successo?

Quando ho chiuso definitivamente, ero così addolorato che non volevo fare più nulla. I miei clienti mi hanno sommerso di telefonate, e un giorno, a fine gennaio, ero a pranzo da Giancarlo Morelli al Bulk, parlando con lui della mia situazione, mi propose di fare il delivery proprio nelle sue cucine. Abbiamo provato e funziona: ci siamo divisi la cucina, io pago un affitto, ognuno lavora nel suo spazio e rispetta quello dell’altro. Ora la cucina va benissimo, c’è un’ottima sinergia tra noi.

Come funziona il tuo delivery?

Si può ordinare su Cosaporto, che può portarti l’ordine anche dopo tre ore. La sera consegnamo verso le 19.30. Alcuni mi chiamano direttamente sul cellulare per le consegne…

Faticoso, ma molto soddisfacente…

Sì, anche perché per i comuni fuori Milano le consegne le faccio personalmente io. Altrimenti, su Milano lavoro sempre tramite Cosaporto. Oppure chi preferisce può venire al ristorante a ritirare direttamente i piatti d’asporto.

Qual è lo scontrino medio per questo tipo di delivery?

Sui 35-40 euro.

Ritieni che questo possa essere un esperimento ripetibile per altri colleghi?

Assolutamente sì. Sinceramente, non mi aspettavo tutto questo boom mediatico, tra telegiornali, testate eccetera. In più, mi hanno scritto anche dei ristoratori italiani da Los Angeles, dalla Germania e anche dalla Sardegna che volevano capire come funziona questo modello che ho adottato.

Cosa ne pensi della questione del “delivery stellato”?

La cucina stellata è totalmente differente, c’è una preparazione e non credo sia ripetibile a casa. Andrebbe realizzata una linea parallela, come ad esempio ha fatto Matias Perdomo, che ha creato una linea totalmente differente, con un packaging bellissimo e accattivante.

Qual è il piatto preferito dai tuoi clienti?

Sicuramente per la caponata e le arancine non c’è mai fine. Di queste ultime ne vendiamo una media di 40-50 giorno: sono fatte a mano, con una lunga lavorazione. Anche le cassate e i cannoli vanno a ruba. Facciamo anche i kit da cucinare a casa, con la pasta, i condimenti sottovuoto e tutte le indicazioni per la ricetta.

Credi che questo progetto continuerà nel tempo?

Non saprei. Per ora mi sono dato un mese di prova, per vedere come va tra costi d’affitto, materia prima, percentuale sul delivery e gli stipendi della mia brigata. Si capirà anche con la riapertura dei ristoranti, quando il delivery verrebbe annullato a causa delle poche prenotazioni.

Raccontami della tua vita personale in questo periodo.

A marzo ho ritrovato la mia famiglia e i miei ritmi familiari. Ho riscoperto il bello di tornare a casa la sera, mangiare insieme a mia moglie, mio figlio di tre anni che ha ritrovato suo papà. La costanza amplifica la percezione e la pandemia ha aumentato molte cose, sia in bene che in male. Con Chiara abbiamo discusso tanto per il mio lavoro e il confronto diretto spesso non c’è, invece ora abbiamo imparato a confrontarci, anche sulle scelte lavorative, cosa che prima non facevamo perché presi da troppe cose.

Un consiglio di cuore per un giovane imprenditore o ristoratore?

Ora come ora viviamo nell’incertezza più totale, quindi non saprei davvero cosa consigliargli. Posso solo dire che chi ha la fortuna di poter continuare questo lavoro, nonostante le mille difficoltà tra fornitori, tasse, stipendi, deve imparare a parlare al plurale. Non esiste più il singolare, siamo stati inseriti in un’unica categoria, quella della “movida”, dal bar al ristorante stellato. Quindi, bisogna cominciare a cambiare le cose facendo gruppo, perché solo così possiamo salvarci tutti. Dobbiamo capire che il giorno che riapriranno i luoghi, la gente ha bisogno di comfort e noi dobbiamo essere pronti a darglielo.

In fondo, è stata la gente a farti tornare.

Non c’è un’attività che non abbia bisogno delle persone. Non bisogna tradirle. Le persone per noi sono un tesoro enorme.

Di Indira Fassioni

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