Oltre l'autobiografia l'autore alterna il racconto del suo passato nel Bronx d'Italia e un presente segnato dalla scoperta dell'Hiv
di Rita Rothnamer Ferrari© ufficio-stampa
Gli esordi non sono tutti uguali. Nemmeno l'emozione che li accompagna lo è. Se ti chiami Jonathan Bazzi, sei nato e cresciuto nelle case popolari di Rozzano, in provincia di Milano, e arrivi a pubblicare il tuo primo romanzo con una grossa casa editrice, ecco che il traguardo, la riuscita, il riscatto devono produrre un frastuono in petto che ha il ritmo dell'hip hop.
“Sono cresciuto a Rozzano, cap 20089, un paese piccolo, ma nemmeno poi tanto, all’estrema periferia sud di Milano […] Le sparatorie, la rissa col morto, le baby gang, le infiltrazioni mafiose. Poco meno di 43.000 abitanti a Rozzano, stretti a ridosso della tangenziale Ovest. Il Bronx del Nord: il paese dei tossici, degli operai, degli spacciatori. I tamarri i delinquenti, la gente seguita dagli assistenti sociali”.
Con una scrittura vertiginosa Jonathan Bazzi, classe 1985, alla sua prima prova letteraria, dal titolo “Febbre”, pubblicato da Fandango Libri, fa amorevolmente precipitare il lettore nel romanzo della propria esistenza. Lo ha dedicato ai bambini invisibili, un sostantivo e un aggettivo che con schiettezza elegiaca sono insieme carezza e schiaffo. Perché in quest’opera scritta in prima persona c’è la verità di un’infanzia dolorosa che accomuna tutti gli adulti che al loro bimbo interiore e alle sue ferite rendono quotidianamente omaggio.
“Tre anni fa mi è venuta la febbre e non è più andata via”. Il romanzo è, in parte, il racconto di una malattia, l’Hiv, che per l’autore e il protagonista è occasione di profonda auto indagine, esplorazione di sé, messa a nudo senza infingimenti, recupero del passato. I capitoli sono suddivisi in presente e flashback. Jonathan ci parla sempre in prima persona e con una scrittura mai leziosa, eppure precisa, snella, veloce, sgrana episodi, eventi, avventure. La scoperta della sieropositivà è costruita con i meccanismi della suspense e quando il fiato diventa troppo corto, arriva una narrazione più lenta e dilatata, quella del Jonathan piccolo, alle prese con adulti distratti e incomprensibili, nevrotici, involontariamente comici. “A un anno ho una famiglia. A tre non c’è più”. C’è la Tina, la mamma che lo ha avuto a nemmeno vent’anni. Minuta eppure fortissima, divoratrice di emozioni, vitale: sembra quasi di conoscerla coi suoi tic e le scelte bizzarre, come quella di chiamare il figlio Jonathan per un noto programma TV anni 80. “Prendo il nome da una trasmissione televisiva condotta da uno finito male”. C’è la famiglia allargata con gli zii, i cugini, i nonni di questo bimbo che cerca di integrarsi come può. C’è l’assenza spietata di un padre desiderato, ma lontano, irrangiungibile al cuore, che smuove rabbia e rassegnazione. C’è Rozzano col suo cinismo. “Ricchio’, femminiello, frocio, fri frì frì”, gli urlano per strada. Eppure Jonathan tira dritto. Nonostante la balbuzie, nonostante l'omosessualità, nonostante l'amore per la lettaratura sembrino allontanarlo dagli altri, il suo desiderio è di farsi vedere per quello che è.
In "Febbre" l'autofiction fa un passo in avanti. Ed è merito della sua disarmante onestà, che non arretra mai davanti alle emozioni, nemmeno quelle giudicate più scomode. "Ho l'HIV e per proteggermi, vi racconterò tutto", aveva scritto in un popolare articolo coming out, che, in occasione della giornata mondiale sull'Aids, il primo dicembre del 2016 aveva fatto molto rumore . Il romanzo adesso ci racconta che per superare il senso di solitudine e isolamento non ci resta che condividere, metterci a nudo, uscire allo scoperto.
Per sapere di più di questo esordio letterario abbiamo raggiunto al telefono lo scrittore.
Ecco la chiacchierata di Tgcom24 con Jonathan Bazzi.
Il tuo stile è potente come la sferzata di vento non ti aspetti: il ritmo delle parole incalza il lettore che dal libro non riesce quasi più a staccarsi…
Per me è la cosa che conta di più, aldilà della storia raccontata. Ho quasi un gusto antropologico per la scrittura. Mi sento libero e allo stesso tempo mi sento diverso dalla media. Rifuggo dalle pose da letterato. Sono cresciuto in un paese scarsamente scolarizzato e questa cosa conta. Sono contento ora che questo libro sia apprezzato in maniera trasversale.
In “Febbre” il bisogno di riscatto è chiaro. Ora che, attraverso la pubblicazione, in qualche modo la guarigione dalle ferite del passato e delle origini si è compiuta, come la vivi? Come una forma di miracolo?
In realtà, ho un grande senso di essere al mio posto. Ho sempre voluto scrivere. Mi sento bene, non mi sento stranito. La sto vivendo con una certa naturalezza. Sono molto curioso di vedere come il libro viene recepito, anche per la storia. Prendo posizioni molto nette. Non sono uno che riesce a essere felice completamente. Sono interessato a imparare cose nuove. Il mio scopo è divertirmi dal punto di vista creativo. Spero che le cose che si svilupperanno, mi permetteranno di fare quello che mi piace, ovvero occuparmi della vita attraverso la scrittura.
Hai avuto un rapporto sano coi social, è lì che hai cominciato a far sentire la tua voce…
Sì, per me Internet ha avuto un ruolo significativo. Anni fa, intorno al 2013, ho cominciato a usare Facebook per racconare scene di vita quotidiana che riguardavano me e il mondo che mi circondava. E’ così che mi sono fatto notare. Nel 2014 ho collaborato col magazine di Dolce&Gabbana dedicato alla cultura italiana. Mi occupavo delle mitologie e del folkore, seguendo la mia passione per il femminile, le sante, i miti del Sud, l’arte culinaria.
Poi sono stato caporedattore a “Gay.it” scrivendo pezzi che hanno girato parecchio. Mi occupavo di questioni di genere, del Pride. Per la giornata mondiale dell’AIDS, il primo dicembre del 2015, ho fatto coming out sulla mia sieropositività con un pezzo che ha fatto parecchio rumore. Da lì sono arrivate altre collaborazioni: con “The Vision”, “Vice”, “Freeda”, “Il Fatto”, “Real Time”. Parallelamente ho continuato a scrivere sui social. Così persone dell’ambiente editoriale hanno cominciato a chiedermi, “Hai qualcosa?”.
Per me è difficile portare avanti le cose senza un progetto concreto. Sulla spinta di questa richiesta editoriale, ho messo insieme 80 pagine e con quelle ho firmato il contratto con “Fandango”. Ed eccoci qua.
Altra cosa che mi ha piacevolmente colpito è la verità del tuo racconto: non ci sono abbellimenti, camuffamenti, alias. Hai messo nero su bianco la tua storia coi suoi nomi reali
Questo libro è per chi ha vissuto la solitudine. Per chi, come me, non ha avuto uno sguardo originario. Io ho bisogno di questo sguardo originario. Il senso delle cose per me si forma con l’interazione con gli altri. La consistenza delle cose dipende dagli sguardi che mi aiutano a creare un senso di realtà. Sono molto introverso di indole. La presenza degli altri è una presenza normativa che mi aiuta a disciplinarmi, a dare una forma chiara a dove sto andando. Per riempire lo spazio ho bisogno degli altri.
Tu insegni e pratichi yoga da tempo: nel libro ci sono parecchi aneddoti, spesso accompagnati da una certa suspence comica (mi riferisco ad esempio all’episodio dell’armadietto chiuso) che non fanno sconti nemmeno al “circo” milanese dello yoga
Ho cominciato a praticare a 19 anni, è passato un bel po’ di tempo. Ha avuto un potere disciplinante su di me. Non solo. Mi ha portato a stare nel corpo, mi è servito per rispettare meglio il mio corpo, a entrare in contatto con gli altri. Il corpo è diventato il grande giudice che mi fa capire cosa mi fa bene e cosa male. Mi ha irrobustito. Credo nel passaggio mente corpo. Con lo yoga sono diventato forte mentalmente, nella capacità di stare, di rimanere. Quando ho cominciato a insegnare mi è venuta una certa insofferenza. Ho visto intorno a me molta superficialità, sciatteria, ignoranza. Ci sono insegnanti che hanno dimestichezza con le posture, ma zero empatia o sensibilità. Sono diventato molto polemico e nei miei articoli ho più volte raccontato quello che vedevo. Ho cominciato ad accorgermi che la deriva è stata eclatante. La maggioranza degli studi di yoga oggi non sono altro che palestre. Nelle scuole cosiddette tradizionali ho vissuto dinamiche patriarcali che producevano quale effetto ottusità o fanatismo, cose che reputo davvero poco interessanti.
La voce di Rozzano si fa sentire forte e chiara ultimamente, soprattutto in musica, con i pezzi trap che arrivano dalle periferie milanesi. Ti piace questo genere?
Sì, per stile, voce, ritmo ci sono artisti come Ghali e Mahmood che sento molto vicini. Mi emozionano, perché facciamo parte dello stesso mondo, ma non solo. Nei loro testi affrontano tematiche a me care, come la ferita paterna e il senso di rivalsa che solo la periferia riesce a darti: è una sorta di imprinting crescere nelle case popolari di Rozzano…
Ora che sei ufficialmente uno scrittore come ti immagini nel futuro?
Ora si aprirà una scena interessante e dovrò capire come muovermi. Lo storie che voglio raccontare sono diverse. Da un lato sono attratto dall’esplorazione di nuovi meandri autobiografici, ma non sono convinto. Mi prenderò un periodo come fase per capire. Mi affiderò per la scelta allo sguardo degli altri che è fondamentale contro l’effetto dispersione.