Le trenta opere, di cui 24 inedite, raccontano l’evoluzione stilistica e formale degli ultimi 4 anni dell’artista anglo-indiano
di Lorella GiudiciLe origini indiane di Anish Kapoor si vedono nelle tonalità speziate dei colori: curcuma, paprica, curry, cardamomo, coriandolo, ma anche scintillante oro, rosso tilaka e blu cobalto. Sono i colori dei sari, sono i colori della vita, della terra e dello spirito. A questi Kapoor aggiunge la materia: una materia che negli ultimi anni ha però perso la bellezza e l’eleganza che la contraddistingueva per far posto ad accumuli sfatti e slabbrati, a squarci organici e decomposti, a strati di silicone e pittura che diventano metafore della carne ferita e del sangue, del dolore e della violenza.
Le trenta opere, di cui 24 inedite, esposte fino al 17 aprile 2017 negli spazi del MACRO - Museo d’Arte Contemporanea di Roma -, ben raccontano l’evoluzione stilistica e formale degli ultimi 4 anni dell’artista anglo-indiano, a partire dalla straordinaria Sectional Body Preparing for MonadicSingularity, esposta l’anno scorso nel parco della Reggia di Versailles e riproposta al MACRO in dialogo con l’architettura del museo, fino a Internal Objects in Three Parts(2013-15), un trittico in silicone dipinto e cera, esposto prima al Rijksmuseumdi Amsterdam tra i quadri di Rembrandt.
Ad esempio, formalmente c’è una grande differenza tra l’assolutezza geometrica e cromatica di Specchio (Da Nero a Rosso) del 2016 e di Scorticato (2016): il primo è una perfetta semisfera di alluminio davanti al quale ci si sente smarriti, senza coordinate e ci si lascia inghiottire da quel rosso magnetico e dal riflesso di quello specchio nel quale ci si vede come proiettati in un’altra dimensione; il secondo è come un grosso brandello di carne decorticata, ha le medesime gradazioni di rosso dello specchio, ma ora sono come lacerti di un macello. Eppure, tematicamente non c’è tutta quella differenza: entrambi raccontano l’uomo, le sue paure, le sue ansie, le sue verità, il suo olocausto. Immagini viscerali, brutali e sensuali, geometriche o lacerti dove luce e ombra, pieno e vuoto, concavo e convesso, lucido ed opaco, liscio e ruvido, metabolizzano per induzione il mistero della vita.
“È il respiro che ci collega all’universo”, ha detto qualche tempo fa Kapoor. “Ed è l’unico modo che ci consente di capire se qualcosa è vivo. A me interessa creare oggetti che respirano”, seppure negli ultimi lavori questo respiro si è fatto pericolosamente lieve.