Il libro di Shani Boianjiu dà voce a ragazzine spaventate e arroganti, teenager intruppate tra centri commerciali e pantaloni a zampa
C’è un altro nemico dell’esercito israeliano, e non è l’Iran o il Libano. Sono le ragazze di leva: i due anni da passare sotto le armi alla fine o durante gli studi, contro i tre dei maschi, sono uno sconto che non ha messo al riparo le forze armate da conseguenze imprevedibili.
Si è parlato molto dei giovani israeliani in India per sfuggire al servizio militare e sui giornali di Tel Aviv finiscono spesso le mattane dei soldati di leva: dagli sfregi ai prigionieri palestinesi, alla lap dance intorno al fucile, alle accuse di collusione col nemico per chi si lascia andare a battere il tempo in qualche festa improvvisata (solo per citare gli ultimi video che hanno fatto discutere). Ma questa volta è un racconto in prima persona a farci entrare nelle file dell’esercito.
Immaginate uno dei tanti soldati americani tornati dall’Iraq o dall’Afganistan col cervello in pappa, ma con tanto talento da essere riuscito a raccontare con una forza visionaria quello che lo ha fatto deragliare. Dimenticate Amos Oz, Grossman e Yoshua. Shani Boianjiu, 26 anni, ricorda di più Yzahr l’autore di La rabbia del vento, lo scrittore che 60 anni fa descrisse la pulizia etnica nei villaggi palestinesi dei soldati d’Israele. Boianjiu da voce a ragazzine spaventate e arroganti, teen ager intruppate tra centri commerciali e pantaloni a zampa, capaci a momenti di stupirti con le loro fissazioni e paranoie a tratti per la loro indipendenza. Ragazze preoccupate non di pace o di politica ma di strappare un “meglio” fatto di un lavoro decente, una buona domanda di matrimonio, un affitto abbordabile.
Il servizio militare di Yael, Avishag e Lea, le tre amiche cresciute in un piccolo villaggio di confine, è un viaggio in una paura diversa, più allucinante e immaginata che reale, che amplifica il terrore assorbito fin da piccole; a morire sono quasi sempre gli altri, i migranti che devono controllare sui monitor, i commilitoni allergici alle procedure, e quando la morte le sfiora più da vicino, e gli porta via un fratello, un fidanzato, quando le stuprano, le ragazze rispondono da veri militari: rassegnazione obbedienza e un rivolo di follia, che so una flebo di acqua ghiacciata in vena, durante un turno di guardia, uno scherzo/ sevizia a un palestinese passato nel posto di blocco nel momento sbagliato. Un rimedio del tutto inadatto per liberarle dal veleno che le ha intossicate.
Ricordate "Nella valle di Elah", il bel film di Paul Hoggis sulla disillusione di un padre militare che cercando gli assassini del figlio, soldato in Iraq, barbaramente trucidato al suo ritorno in patria scopre un universo corrotto, un figlio spacciatore e sadico, instradato nel suo percorso di morte dalle regole della guerra. Quelle che lui stesso aveva condiviso. E’ un film che viene in mente leggendo "La gente come noi non ha paura". L’immagine più forte di “Nella valle di Elah” è il padre- tradito dai suoi stessi ideali-,che appende la bandiera americana alla rovescia. E’ il segnale per la richiesta di aiuto; anche “La gente come noi non ha paura” lancia un segnale per le ragazze dell’esercito israeliano, speriamo che qualcuno lo raccolga.