Da Duchamp a Cattelan

Ascesa e declino del contemporaneo nel libro "L'arte nel cesso" di Bonami

"Ritrovare la capacità d’inventare e narrare storie". Il brillante critico internazionale riprende il discorso avviato dieci anni fa

09 Mag 2017 - 10:13
 © ufficio-stampa

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Con l’autoironia che lo contraddistingue, Francesco Bonami, uno dei più brillanti critici d’arte internazionali, mostra in "L'arte nel cesso" (Mondadori - 144 pagine, 18 euro) una serie di racconti e riflessioni che spiegano perchè ora all'arte non bastano più solo idee che si rincorrono con l'obiettivo di essere una più rivoluzionaria dell'altra. E perché, provocazione dopo provocazione, la contemporaneità ha esaurito il suo potere di stupire. E conclude che, per tornare a essere utile, l’arte deve ritrovare la capacità d’inventare e narrare storie, recuperando quell’essenziale cocktail di ingenuità e genialità che è alla base della creatività umana. Bonami riprende il discorso avviato dieci anni fa in "Lo potevo fare anch’io" e ammette che, in fondo, tante opere alla cui vista restiamo sgomenti forse avremmo potute farle anche noi, e comunque, anche se le ha fatte qualcun altro prima questo non significa affatto che si tratti di arte.

Per concludere, provocatoriamente ma non del tutto, che forse l’arte contemporanea – che ha avuto inizio nel 1917 con l’orinale capovolto (Fontana) di Marcel Duchamp – oggi, a un secolo esatto, è giunta alla sua fine, e deve lasciare il posto a un nuova fase. E con che cosa si è conclusa? Con America, il cesso d’oro 18 carati di Maurizio Cattelan esposto nell’autunno 2016 al Guggenheim di New York, dove lo si può non solo ammirare ma persino usare.

"In questi cento anni - dice Bonami - abbiamo visto davvero di tutto, dagli artisti che sulla scia di Duchamp espongono un oggetto, a chi propone un concetto (come Una e tre sedie di Joseph Kosuth), a chi mostra un progetto, ovvero parole, disegni, grafici che vengono presentati come opere d’arte ma al momento sono semplici ipotesi in attesa di essere realizzate. Tutti accomunati dall’intento di sorprendere".

Ecco la premessa in esclusiva per i lettori di TGcom24

Chi sospetta che questa sia la continuazione o, come si dice
in termini cinematografici, il remake di Lo potevo fare anch’io
potrebbe avere ragione.
Io ancora non lo so, visto che ho iniziato a scrivere ora.
Lo saprò alla conclusione, ma per chi ha comprato il libro
sarà ormai troppo tardi :-)

Lo potevo fare anch’io si chiudeva dicendo che sì, potevate
farlo anche voi, ma lo ha fatto prima qualcun altro. Ora
in questo libro, forse per l’età che mi garantisce lo sconto
su Trenitalia, faccio esercizio di dubbio. Mi chiedo se non
sia alla fine proprio così, che tanta arte si potrebbe fare anche
noi, e se pure l’ha fatta qualcun altro prima non è detto
che alla fine sia davvero arte. Arte o non Arte? Questo è
il problema. Se sia più nobile tollerare un Botero o un Mitoraj
oppure lasciarsi morire davanti a una scatola da scarpe
vuota, a un orinale rovesciato, a una stanza buia dove la
luce si accende e si spegne, davanti a un essere umano che
ti chiede all’entrata di un museo «What is progress?», cos’è
il progresso? In tale Bonamletico dubbio io colo le fondamenta
di questo brutto libercolo sperando che alla fine si
trasformi in piccolo cigno editoriale capace di fare le scarpe
a me stesso sbaragliando Lo potevo fare anch’io.
Il primo titolo di questo libro voleva essere «Potete farlo
voi! Dall’orinale all’orale, la fine dell’arte contempora-
nea». L’orinale era chiaramente quello di Duchamp. L’orale?
mi chiederete voi. L’orale intanto fa rima con orinale,
e poi è anche l’opera d’arte più bizzarra e affascinante che
mi sia capitato d’incontrare nella mia carriera di curatore.
L’autore è Tino Sehgal, tedesco, che invece di creare sculture
crea situazioni. Ovvero gente che parla, che si muove,
che canta, che danza, che corre. Gente che sembra normale
o pazza ma pur sempre gente, finché alla fine non rivela
allo spettatore il titolo di quello che è, tipo: This Progress
appunto «Tino Sehgal 2010».

Poi però è arrivato il cesso d’oro di Maurizio Cattelan da
me intitolato America. Quest’opera è stata realizzata o meglio
installata al Museo Guggenheim, per il grande rientro
del Maestro del Fregatuncola. Un cesso d’oro è una tentazione
troppo forte alla quale resistere scrivendo un libro
che vuole raccontare la fine dell’arte contemporanea, iniziata
un secolo fa con il famoso orinale rovesciato di Duchamp,
passata attraverso la Merda d’artista di Manzoni e
conclusasi, a mio parere, con questo cacatoio di oro massiccio
per il quale la gente si mette in fila a lungo trattenendo
i bisogni corporei pur di vedere l’effetto che fa farla dentro
un’opera d’arte per di più d’oro. Pareva che il «teschio di
diamanti» di Damien Hirst avesse detto tutto su arte, consumo,
lusso e mito. Invece no, Cattelan ha voluto l’ultima
parola con la «Banalità del pitale».

Ho pensato però che fosse troppo scontato intitolare il libro
«Il cesso d’oro», anche perché l’idea non è quella di sottolineare
il valore dell’arte, ma anzi analizzare una parabola
durata un secolo durante la quale l’arte contemporanea
partita da un cesso è arrivata a un altro cesso a prescindere
dal proprio valore economico. Così è venuto fuori un titolo
semplice ma chiaro: L’arte nel cesso. Come se l’arte contemporanea
e le sue idee fossero state mangiate dalla bocca di
Duchamp, digerite per cento anni dagli enzimi concettuali,
e non, del suo stomaco, fatto da tanti artisti diversi, per
poi come ogni cibo, finita la digestione e assimilato, essere
espulso dalla sua uscita naturale, il culo di Cattelan.
Insomma, un giorno un artista rovesciò un orinale e iniziò
il ciclo dell’arte contemporanea che dagli oggetti più strani
è tornata alle persone, alla loro voce, ai loro gesti. L’arte,
conclusa la sperimentazione e la provocazione – alcuni
sintetizzano le due cose con «la presa per il culo» –, torna
a raccontare storie, prima a voce, poi chissà come. Se si
pensava che l’arte contemporanea fosse quella che accade
mentre noi siamo vivi, di pari passo al nostro ciclo di vita,
forse oggi si scopre che è stata invece l’espressione di un
periodo storico, come lo sono stati l’arte classica, il gotico,
il Rinascimento, il manierismo, il barocco, il rococò, l’arte
romantica, l’impressionismo, il cubismo, l’arte moderna e
via di seguito. Il periodo «contemporaneo» è durato a parer
mio un secolo esatto. Dal 1917 di Duchamp al 2017 del
nostro oggi. Da ora, per chi è d’accordo, si potrà dire: «Al
tempo del Contemporaneo si andava in galleria a guardare
una tela tagliata, ad ammirare dei cavalli vivi in un garage
che si chiamava L’Attico tanto per confondere le acque, a
vedere gente che firmava le persone, a osservare individui
rotolarsi per terra, un tizio fare il cane e mordere i visitatori...
» e così via. Insomma, è finita un’epoca. Cosa verrà al
posto del Contemporaneo? Boh!!! Che volete che ne sappia
io? Posso provare a indovinare, ma dare nomi non è il mio
forte e nemmeno il mio mestiere. L’Arte del Presente, Present
Art? L’Arte dell’Ora, Now Art? Arte Momentanea, Momentary
Art? Sì, perché tutta l’arte fa parte di un momento
che poi è destinato a cambiare seguito da altri momenti.
Ma torniamo alla fine dell’arte contemporanea o al suo
«incomincio». Duchamp sostituisce alla semplice realizzazione
dell’oggetto l’idea. Non inventa l’orinale ma ha l’idea
di rovesciarlo e pure firmarlo, e persino il coraggio di
esporlo. Da quel momento la storia dell’arte contemporanea
è stata una gara a chi aveva l’idea migliore o più stravolgente
o magari rivoluzionaria o provocatoria. Addirittura
si arriva a mostrare solo l’idea o niente, come le luci
che si spengono o si accendono di Martin Creed, che vince
pure il famosissimo Turner Prize alla Tate di Londra, o prima
di lui gli oggetti invisibili di De Dominicis copiati poi
da Cattelan. C’è chi dice, a volte non a torto, che l’arte con-
temporanea finisce nelle mani dei furbetti. È però spesso
un’affermazione semplicistica e un po’ qualunquista. Caso
mai si può dire che nell’arte contemporanea, oltre al necessario
talento, a volte si aggiunge un po’ di cinismo e furbizia,
qualità che, del resto, gli artisti hanno sempre usato
anche in passato.

Da Duchamp in poi l’arte diventa un domino, un’idea
ne produce un’altra che ne produce un’altra ancora, fino
appunto alla fine delle idee. Il «cesso d’oro» è la dimostrazione
quasi scientifica che le idee finiscono come l’acqua
o il petrolio o come il caffè a casa propria. Finché le idee
aiutano a creare cose e immagini è un conto, ma se servono
solo a generare altre idee la faccenda si fa complicata.
Come se un rigore in una partita provocasse un altro rigore
e poi ancora un altro all’infinito, senza che nessuno però
riesca mai a segnare questo benedetto gol. Così è stato per
l’arte contemporanea.

Dopo i personaggi di Tino Sehgal che riempiono un museo
che cosa mai si può fare, lasciare il museo completamente
vuoto, okay, ma dopo un po’ tutti i musei chiudono e allora
buonanotte all’arte e ai suonatori. La gente si è assuefatta
talmente tanto all’arte che deve sorprendere a ogni costo
che non si sorprende più. Infatti nel caso di Tino Sehgal
succede proprio questo. Dopo che uno ha visto una delle
«situazioni», si badi bene non performance come verrebbe
istintivo dire, dell’artista tedesco non ne vuole vedere più.
È come con i film. Ci sono film che uno guarda e riguarda
all’infinito anche se sa a memoria la trama e come va a finire,
ad esempio Casablanca. Sono storie che non scadono
mai, a lunga conservazione. Mentre ci sono film che magari
uno si diverte o si emoziona a vedere una volta, ma che
poi non ha più voglia di rivedere. Film molto freschi, che
però come tutte le cose troppo fresche vanno a male subito.
Così con l’arte.

L’orinatoio di Duchamp si sa cos’è e nessuno vuol fare
un viaggio apposta per vederlo. Invece Las Meninas di
Velázquez, Guernica di Picasso, La morte di Marat di David,
Oktober 1977, il ciclo di quadri sulla morte di un gruppo di
terroristi tedeschi di Richter, il Rabbit specchiante di Koons
o il suo Puppy di fiori si vogliono andare a vedere e rivedere.
Questi capolavori fanno parte dell’Arte del Sempre, The
Always Art, nome del menga ma che funziona per spiegare
perché certa arte, anche buona, viene a noia e invecchia
in fretta e altra, invece, non viene mai sulle scatole e si ha
sempre voglia di rivederla. Un po’ come i baci, quelli veri
e quelli Perugina, non stancano veramente mai e ogni volta
sembrano nuovi.

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