Al Palazzo Blu i capolavori del movimento artistico, in prestito dal Centre Georges Pompidou. Una "sfilata" di opere da Dalì fino alla "Gioconda baffuta" di Duchamp
di Lorella Giudici© ufficio-stampa
"La Gioconda è così universalmente nota e ammirata da tutti che sono stato molto tentato di utilizzarla per dare scandalo. Ho cercato di rendere quei baffi davvero artistici", aveva dichiarato Marcel Duchamp dopo che sul volto di uno dei quadri più noti al mondo aveva disegnato baffi e barbetta per poi ribattezzarlo L.H.O.O.Q. (un acronimo da risolvere leggendo le lettere che lo compongono con una pronuncia francese. Dissacratoria, irriverente e al limite del blasfemo, l'opera chiude la mostra che Palazzo Blu di Pisa dedica ai maestri del Surrealismo: René Magritte, Salvador Dalí, Marcel Duchamp, Max Ernst, Giorgio De Chirico, Alberto Giacometti, Man Ray, Joan Miró, Yves Tanguy, Pablo Picasso e molti altri. In particolare, la rassegna fa un focus sul 1929, un periodo nefasto per il mondo, a causa del crollo di Wall Street, ma un'annata chiave per il gruppo di artisti che operava a Parigi, la città fucina delle Avanguardie.
Inoltre, è in quel dicembre che, sulla rivista "Révolution Surréaliste", André Breton pubblica il Secondo manifesto surrealista che imprime al movimento una svolta "ragionante". Il 1929 vede anche l'affermarsi della fotografia surrealista, testimoniato dagli stretti legami tra i grandi fotografi quali Brassaï, Lotar, Boiffard, Man Ray, Jean Painlevé, Claude Cahun, tutti presenti in mostra. Sempre in quel fatidico 1929 Salvador Dalí irrompe sulla scena parigina e il fermento del movimento è testimoniato proprio dalla sua collaborazione con il compatriota Luis Buñuel per il primo film surrealista: Un chien andalou. Tra le 150 opere raccolte di Salvador Dalí sono esposti ad esempio capolavori quali Dormeuse, Cheval, Lion invisibles del 1930 e L'âne pourri del 1928.
L'immagine della rassegna pisana è però una grande opera, per estensioni (114 x 162cm) e per contenuti, di Magritte intitolata Le double secret (1927). E' con la realizzazione di questo dipinto che l'artista belga prende coscienza della natura pellicolare delle immagini, della loro infinita possibilità di scomporsi e del mistero che può nascondersi dietro l'evidenza del reale. Da uno sfondo diviso tra cielo e mare emergono ieratici due grandi volti sezionati, quello di sinistra non è altro che la "maschera" strappata alla figura di destra, la quale, rimasta priva di un grosso brandello di pelle, mostra al suo interno non delle parti anatomiche, ma una calcificazione di sfere metalliche. In quel paradosso visivo, tra la minuziosa perfezione descrittiva dei lineamenti e la vastità degli elementi che fanno da sfondo, s'insinua tutta la poesia di Magritte che per lui "consiste in ciò che si trova nel mondo, al di qua di quanto ci è permesso di osservare".