Con il suo ultimo libro, il filosofo ci guida in un'approfondita immersione del fenomeno sociale degli ultimi tempi
di Gianluca Mazzini© tgcom24
Le ragioni della mitica “competitività” tedesca sono da rintracciare nel cosiddetto “piano Hartz” con cui venne riformato il mercato del lavoro visto che nel 2001 la Germania registrava una crescita inferiore a quella dell’Italia e un deficit maggiore. Per questo le fortune tedesche non sono state determinate dalla cancelliera Angela Merkel bensì dal socialista Gerhard Schröder. A metà degli anni ‘90 la Germania era ritenuta il “malato d’Europa”, messa sotto accusa dal Fondo monetario internazionale e dall’Ocse. Poi il governo rosso-verde del socialdemocratico Schröder tra il 1998 e il 2003 realizzò alcune riforme del mercato del lavoro per una maggiore “flessibilità” che riscrisse le regole del sistema di welfare teutonico riducendo le tasse sulle fasce di reddito più elevato. Era il ricordato “piano Hartz” – dal nome di Peter Hartz, membro del consiglio d’amministrazione della Volkswagen e della commissione “Servizi moderni per il mercato del lavoro” –, cioè la riforma del lavoro tedesco messa concretamente in atto tra il 2003 e il 2005 che, grazie a precarietà, sottoccupazione e sussidi mascherati, permise alle imprese tedesche di far fruttare un calo del salario reale di circa il 6%.
Nel biennio 2002-2003, la scarsa competitività aveva trascinato in basso il tasso di crescita delle esportazioni tedesche sino al 3.2%. Ma appena gli effetti del dumping sociale creato dalle riforme Hartz si fanno sentire, le esportazioni decollano con tassi di crescita a due cifre: 10.3% nel periodo tra 2003 e 2006. Sono gli effetti della “svalutazione interna” che promuovono le esportazioni e di conseguenza determinano benefici di produttività. Ma la catena causale parte dalla svalutazione del lavoro. Altrimenti detto, nel fenomeno allargato e consolidato del precariato. Da cui, al netto del décalage tipico delle province periferiche dell’impero, il Jobs Act dello statista di Rignano.
A guidarci in un’approfondita immersione speleologica del fenomeno sociale, nuovo e lacerante, del precariato è l’ultimo libro di Diego Fusaro, filosofo marxiano non pentito segnato dalla tenace volontà di non farsi condizionare dagli steccati ideologici del secolo e del millennio trascorsi, il cui titolo recita Storia e coscienza del precariato (Bompiani, euro 17). Fusaro, passando arditamente attraverso Hegel, Marx e Guénon, ricorda che il termine precario, rimanda al latino prex, precis, la “preghiera”. Nel senso di ciò che si ottiene tramite la preghiera e si esercita solo in quanto concesso dalla benevolenza altrui. Da cui la figura del precario, soggetto sociale instabile e sottoposto a revoche improvvise.
L’assenza a priori di un posto di lavoro a tempo indeterminato, infatti, non crea solo dinamiche economiche funzionali a precisi progetti di accumulo ma produce anche psichismi sociali che caratterizzano la sindrome del precariato. Con gravi ripercussioni a tutti i livelli dell’antropologicamente sensibile: "la fase assoluta si regge sulla figura del giovane single senza autorità paterna e sull’immaturità permanente come cifra spirituale. L’accumulazione flessibile dissolve l’eticità e, per ciò stesso, la maturità: impedisce agli individui di stabilizzarsi sentimentalmente, lavorativamente e politicamente e di conseguenza, nega loro il diritto di maturare e di diventare adulti. Li costringe a essere eternamente giovani ed eternamente precari, in attesa di una stabilizzazione rinviata sine die: la maturazione borghese nelle figure dell’eticità stabilizzata è sostituita dall’Erasmus permanente delle nuove generazioni trendy e fashion addicted, strutturalmente nomadi e non stabilizzate, condannate alla condizione dell’eterna gioventù, ossia dell’illimitata instabilità e dell’inesauribile erranza nomadica. I giovani in preda al capitalismo flessibile attendono per tutta la vita una maturità e una stabilizzazione che non giungeranno mai. La precarizzazione del mondo della vita e l’infantilizzazione della società appaiono, dunque, come reciprocamente innervate".
Lo studio è un denso excursus di riflessioni relative alle dinamiche socio-economiche che hanno portato alla situazione attuale in cui gli oratores del turbocapitalismo imperante, "il circo mediatico e il clero secolare accademico e intellettuale", grazie alla neo-lingua orwelliana mantengono, rinnovano e tramandano il monologo elogiativo dell’ordine dominante persuadendo i ceti sconfitti dalle politiche liberiste – come gli schiavi della caverna della Repubblica di Platone (e di Scalfari…) ignari della loro prigionia – dell’intrinseca bontà dell’universalismo del mercato e dell’insindacabile verità del teorema tra libertà e mondializzazione. Il che ci conduce a un altro aspetto, tra i tanti, che suggerisce una lettura attenta di questo testo non conformista. Ci riferiamo alla messa in guardia contro la presunta opposizione al sistema portata avanti dagli anarchici new global.
La cosiddetta “controcultura” hippy e anarcoide post-moderna e post-marxista, spiega Fusaro, "è avversa alla sovranità dello Stato nazionale non meno di quanto lo siano le oligarchie finanziarie di cui Soros e Rockefeller sono espressione: auspicando una mondializzazione anti-autoritaria dei consumi, legittima da sinistra ciò che l’oligarchia competitivista santifica da destra. Dalla liberalizzazione delle droghe e dei valori non ancora mercificati all’apertura cosmopolitica delle frontiere in nome della retorica immigrazionista e del nomadismo del perpetuum mobile della libera circolazione delle merci, la Sinistra del Costume forgia le sovrastrutture ideali di completamento della nuova struttura del capitale assoluto post-borghese e post-proletario. Perfino la variante radicale della sinistra del Toni Negri di Impero non si pone come critica del capitalismo, ma come apologia critica del capitalismo, proponendo di fatto una forma non già di anticapitalismo, bensì di alter-capitalismo".
In sostanza, la Destra del Danaro e la Sinistra del Costume hanno nell’orizzonte post-1989, un nemico in comune, individuato nello Stato nazionale cui contrappongono l’open space della liberalizzazione integrale senza confini e tutele di ordine politico. Per la sinistra del mondialismo anarco-consumista, lo Stato nazionale di diritto è intrinsecamente fascista e, dunque, degno di essere abbattuto. Nel suo superamento, la new left arcobaleno e post-marxista ravvisa la possibilità di una maggiore anarchia, senza accorgersi che di tale situazione beneficiano solo i signori dell’anarchismo competitivista e del big business deregolamentato. "L’anarchismo del desiderio consumistico deregolamentato à la Negri è il lato sinistro della stessa mondializzazione capitalistica di cui l’anarchismo delle transazioni finanziarie deregolamentate e dei movimenti senza controllo dei capitali à la Soros è il lato destro".
In altre parole, ciò che la sinistra elogia e persegue come anarchia libertaria dei costumi coincide con ciò che la destra concretamente attua come deregulation liberista dei consumi e della produzione. E così, dopo avere scontentato Destra del Danaro e Sinistra del Costume, non senza qualche rischio personale, Fusaro depone, momentaneamente, la penna. Lasciandoci in eredità un ricco arsenale di spunti su cui riflettere. E magari meditare.