dal 6 dicembre al 19 marzo 2023

Giotto e il Novecento. Una mostra sorprendente al Mart di Rovereto

Un progetto ambizioso che raccoglie 200 opere e che si inserisce coerentemente in quella linea perseguita dal museo, tutta tesa a indagare il rapporto fra modernità e antico in un dialogo costruttivo e non scontato

di Lorella Giudici
06 Dic 2022 - 11:36
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© Ufficio stampa
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Giotto, il maestro che rivoluzionò la pittura medievale e aprì al vero (con le belle pecore garfagnine e le lacrime che rigano i volti delle madri), peraltro mai usato in senso descrittivo o aneddotico, non solo è stato amato nell'Ottocento, ma, a partire da Carrà, la cui pittura e scrittura sono intrise della lezione del Maestro di Bondone, è stato anche un punto di riferimento lungo tutto il Novecento e oltre. Lo attestano i lavori odierni di Tacita Dean, Chiara Dynys e James Turrell, con i quali si chiude il percorso espositivo della sorprendente mostra al Mart di Rovereto (dal 6 dicembre al 19 marzo 2023): un progetto ambizioso che raccoglie 200 opere e che si inserisce coerentemente in quella linea perseguita dal museo, tutta tesa a indagare il rapporto fra modernità e antico in un dialogo costruttivo e non scontato.

La mostra, nata da un'idea di Vittorio Sgarbi e curata da Alessandra Tiddia, si apre con una grande installazione immersiva che riproduce i meravigliosi e inamovibili affreschi della Cappella degli Scrovegni di Padova per rivivere, seppure in maniera virtuale, il colore, le forme e le storie che nel 1916, in un clima ancora tutto futurista e avanguardista, hanno fatto scrive a Carrà la sua famosa Parlata su Giotto: "Se tu sei sensibile alla bellezza raffigurata ove ti avvenisse di vedere un fresco di Giotto, […] ti sentirai nascere una voglia matta in animo di accarezzare con la mano la bella materia che forma il dipinto di quel massiccio visionario trecentista".

E Carrà non è il solo, anche Gino Severini e Fortunato Depero (che gelosamente conservava fra le sue carte una foto Alinari con la raffigurazione del Giudizio Universale degli Scrovegni) non sono rimasti immuni alla plasticità del grande toscano e hanno rintracciato nella sua pittura il testimone di un’eternità alla quale tendere, di una perfezione e di una spiritualità che anche a distanza di secoli continuano a stupire. Parole che possono adattarsi pure a Mario Sironi e ad Arturo Martini, che ammiravano in Giotto la costruzione, la forza della sintesi e la bellezza di un colore che sa essere armonioso e mentale ad un tempo: “L’arte di Giotto - ha scritto Sironi - ebbe come elemento primo il colore. Le figure anche raggruppate in processioni e conversazioni erano interamente libere, come a teatro: tutte le figure su un piano solo, una scena sola con pochi personaggi di uguale peso che riempiono tutto lo spazio; le architetture, le rocce dello stesso volume dell’uomo, ridotte a personaggi. Nessuna prospettiva, né sfondo, né lineare, né coloristico. Donde una meravigliosa distensione di valori cromatici, un rinnovarsi continuo dell’equilibrio di colorismi equivalenti, un meraviglioso senso ornativo e narrativo del colore sul quale le figure si muovono in gloria”.  

Negli anni del regime, poi, la pittura del Bondone diviene modello per l’arte murale che riprende il concetto narrativo dei grandi cicli decorativi, come ci ricordano gli affreschi e i mosaici di Funi e Campigli nell’Università di Padova, di cui in mostra si possono vedere vari bozzetti. 

Da Casorati, che lo studia dal punto di vista cromatico (come rivelano i suoi appunti sulle cartoline degli Scrovegni) a de Chirico, che resta affascinato dal vuoto che il toscano inserisce tra i corpi e che oggi potremmo quasi definire pre-metafisico, da Giorgio Morandi a Fausto Melotti, da Mario Radice a Lucio Fontana, sono tanti gli artisti che nel XX secolo lo hanno incluso nella loro personale top ten e nei luoghi da non perdere. Anche per Henri Matisse le visite patavine (1901, 1931 e 1933) sono state una rivelazione: "Quando vedo gli affreschi di Giotto a Padova non mi preoccupo di sapere quale scena della vita di Cristo ho sotto gli occhi, ma percepisco immediatamente il sentimento che ne emerge, perché è nelle linee, nella composizione, nel colore". 

L'amore per Giotto oltrepassa quindi i confini italiani, non solo con Matisse, ma anche con gli inglesi Mark Gertler e Stanley Spencer, autore fra il 1926 e il 1932 della Sandham Memorial Chapel (Hampshire), una cappella dedicata alla memoria dei soldati progettata sul modello degli Scrovegni.  

Infine, oltre oceano, ritroviamo Giotto fra le passioni di uno dei massimi esponenti dell’astrazione, Mark Rothko, e nel maggiore esponente del Realismo americano, Edward Hopper, per il quale “l’arte che racchiude una verità fondamentale è sempre moderna. Per questo Giotto è moderno come Cézanne”. 

Per alcuni, quindi, il debito verso Giotto è espresso come una programmatica dichiarazione di intenti (Carrà, Sironi, Rothko, Matisse), per altri è l’occhio critico che, spesso a posteriori, individua caratteri e modi derivati dai connotati giotteschi, è il caso, ad esempio, dell’astratta modernità di alcune sue forme, che trovano echi nei quadrati di Josef Albers oppure dell’impalpabile blu trapunto di stelle della volta di Padova, che ha non poche analogie filosofiche con l’arte di Yves Klein.

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