© Ufficio stampa
© Ufficio stampa
A distanza di settant'anni l'opera del 1887 è finalmente riapparsa ed è possibile ammirarla alla Galleria Civica Giovanni Segantini fino al 28 gennaio 2025 e poi su prenotazione
di Lorella Giudici© Ufficio stampa
© Ufficio stampa
Avvolte nella pallida luce autunnale, una mucca e una donna si abbeverano alla stessa fonte. Un gesto usuale in quel sereno contesto alpestre di fine Ottocento, ma anche una metafora per ricordare che tutti gli esseri viventi si dissetano a un'unica sorgente: la natura. Un brusco cambio cromatico (i grigi e i bianchi del primo piano contro i verdi autunnali dello sfondo) e un'esile staccionata separano la scena dal villaggio di Savognin, nei Grigioni svizzeri, il luogo in cui Giovanni Segantini si era trasferito dopo il periodo brianteo. Il sentimento autunnale intride i colori e le cose: dai chiari impasti filamentosi che disegnano il manto della mucca a quelli che si distribuiscono orizzontalmente per comporre il verde tappetto degli alpeggi; dai toni cenerini della terra ai caldi nocciola del carretto che trasporta foglie o letame (entrambi necessari per prepararsi all’arrivo dell’inverno). "Sole d'autunno" (1887) è uno degli esiti più sperimentali della pittura segantiniana ormai avviata al divisionismo. Ora di nuovo esposta al pubblico.
"Sole d 'autunno" era stato presentato per la prima volta alla Biennale di Venezia del 1887, era poi passato nella collezione di Alberto Grubicy (1887), il mercante che si era occupato dei divisionisti, e da lì era transitato inizialmente nella collezione Dall'Acqua (1894) e poi in quella di Rossello (ante 1926). La tela è stata esposta per l'ultima volta nel 1954, in occasione della rassegna Pittori Lombardi del Secondo Ottocento a Como, dopo di che se ne sono perse le tracce. A distanza di settant'anni è finalmente riapparsa ed è possibile ammirarla alla Galleria Civica Giovanni Segantini di Arco (fino al 28 gennaio 2025 e poi su prenotazione) che, in occasione della sua acquisizione, ha voluto celebrare il 125esimo anniversario della scomparsa dell'artista presentandola al pubblico con un focus centrato sull’ininterrotto legame che il pittore ha avuto con la sua città natale e ne ha valorizzato la centralità tra i capolavori dell'artista arcese.
Grazie alla lungimiranza del Comune di Arco, che ha colto l'eccezionale importanza del dipinto e che per 3 milioni di euro lo ha acquisito presso la Galleria Bottegantica di Milano, il quadro segna di fatto anche due record: è uno dei più grandi acquisti pubblici mai avvenuti di un'opera dell'Ottocento italiano e la maggiore acquisizione segantiniana a partire dal 1927.
In quel rettangolo di paesaggio non c'è posto per il cielo, ma il colore, studiato dal vero e steso con pennellate ora corpose ora allungate, è comunque intriso di un chiarore terso, carico di respiro e di appagante serenità. E se Previati ricorreva a una luce miracolistica, il maestro di Arco si serviva di quella che sgorgava vergine e spontaneamente mistica dall'empireo delle sue montagne. E perché questa depurazione fosse sempre più il frutto della distillazione tra natura e idea, egli saliva in cima ai monti, sempre più vicino al nitore che traduceva in amalgami di luce ferma e nitida, in un chiarore naturale e ascetico che avvolge tutte le cose (dalle zolle d'erba, ai tetti delle case; dai velli ai corpi degli uomini) in un immobile silenzio o, come aveva lui stesso specificato, in un prodotto del "pensiero fuso nel colore".
Le alte vette, del Trentino prima e quelle della Svizzera poi, sono state per Segantini il luogo ideale, la sorgente viva e incontaminata dove trovare non il sublime e nemmeno il pittoresco, ma quell'ispirazione sincera e senza mediazioni che, partendo dalla natura, arriva dritta allo spirito attraverso il pensiero, requisito essenziale per poter parlare di arte e non di semplice imitazione: "Non è arte quella verità che sta e resta al di fuori di noi […]. La materia deve invece essere elaborata dal pensiero per salire a forma d’arte durevole", aveva scritto. Sì perché, socialista e ateo convinto, più che nella professione di una fede, Segantini ravvisava la spiritualità nella commozione dell'uomo davanti alla magnificenza del creato e nel sentimento velato di malinconia che consente di vedere in noi stessi, anche solo per un attimo, quel bello che solo l'arte sa restituire in modo universale e duraturo.