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E' la prima volta che le opere del maestro vengono esposte nella Svizzera tedesca. Nei suoi dipinti tutto resta sospeso, in una dimensione metafisica dove è protagonista la luce
di Lorella Giudici© Ufficio stampa
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Sono 65 i lavori di Edward Hopper (1882–1967) esposti alla Fondazione Beyeler di Basilea e sono stati eseguiti tra il 1909 e il 1965. Tra questi possiamo citare capolavori come Gas (1940), Second Story Sunlight (1960) e ancora Cape Code Morning (1950). Ma è soprattutto sul tema del paesaggio che si concentra la rassegna svizzera con iconici scorci del Massachusetts realizzati ad olio a cui si aggiunge una rara selezione di acquerelli e di disegni, mezzi con cui l’artista era solito appuntarsi le idee.
E' la prima volta che opere di Hopper vengono esposte nella Svizzera tedesca e l’iniziativa è nata con la cessione in prestito permanente alla Fondazione Beyeler di Cape Ann Granite, un paesaggio dipinto da Hopper nel 1928 e che per decenni aveva fatto parte della Collezione Rockefeller.
I paesaggi di Hopper sono composizioni di limpida geometria, sezioni auree di un mondo moderno, ma stranamente immobile e silente. Elementi salienti sono le case che occupano lo spazio come volumi dagli spigoli vivi, come blocchi cubici e inaccessibili; le linee parallele dei binari ferroviari sui quali sembra non essere mai transitato un treno; la successione di piani ondulati disegnati dalle colline e gli impenetrabili boschi, scuri e inquietanti.
Su tutto vigila la luce: zenitale, pura e rigorosa. Per Hopper la luce non è un fenomeno atmosferico, ma mentale e come Vermeer o Seurat la usa per solidificare, geometrizzare, immobilizzare i corpi e le cose nello spazio. Nei suoi dipinti la luce si sostituisce all’aria e ne diventa protagonista: "Quello che volevo fare era dipingere la luce del sole sul lato di una casa", racconta l’artista a Lloyd Goodrich nel 1946. E accanto alla luce c’è l’ombra, che insinua nella visione un senso di disagio, di inquietudine, come di qualcosa che sta per accadere ma poi non si compie. Tutto resta sospeso, cristallizzato in un tempo senza fine, in una dimensione metafisica e straniante.
Un fermo immagine che mette in evidenza un altro aspetto, spesso citato, dell’opera di Hopper: la malinconia, che nei paesaggi è velata, quasi impercettibile, se non fosse per quelle strade deserte, quei campi disabitati, quelle fattorie senza un segno di vita e quando all’interno del paesaggio compaiono gli uomini è ancora peggio: il loro inutile attendere, il loro non agire, i loro volti taciturni, sempre seri e pensosi non fanno che accrescere la cappa di mestizia che avvolge tutte le cose. Infine, un punto focale, anche questo spesso ribadito, è il silenzio.
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Nei suoi quadri le città sembrano disabitate, le strade sono deserte, le rare auto sono ferme e persino la natura non ha voce: non c’è il suono del vento, non c’è il cicalio degli uccelli, finanche il mare non fa rumore. Quello di Hopper è un mondo immobile e privo di suoni o se ci sono non ci arrivano perché è come se fossimo costretti a guardarlo attraverso il vetro di un acquario. Nulla deve distrarre lo spettatore al quale viene chiesto un immenso sforzo: pensare, impegnarsi per risolvere il grande rebus della vita.