dopo il caso weinstein

Il mio #metoo: "Una denuncia ci aiuta a ricordare quanto siamo incolpevoli"

La scrittrice Irene Chias racconta la sua esperienza: "E' come se quelle che dopo anni denunciano un abuso non siano vittime dello stesso sistema in virtù del quale quelle che non lo hanno subito non hanno fatto carriera"

26 Ott 2017 - 17:19
 © tgcom24

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Sulla scia del caso Weinstein, sui social è partito l'hashtag #metoo, un invito alle donne a non tacere sugli abusi subiti. Tra le tante testimonianze circolate in rete, pubblichiamo quella della scrittrice Irene Chias, che sul tema delle violenza sulle donne ha scritto il romanzo "Esercizi di sevizia e seduzione". Il suo ultimo libro è "Non cercare l'uomo capra".

In questi giorni ho potuto leggere sui social esempi di gorettismo (Asia Argento sì e tutte quelle che per non averla data non hanno fatto carriera no?), di benaltrismo (Asia Argento sì e le minorenni molestate dai professori no?), di lotta di classe applicata al valore di uno stupro (Asia Argento sì e le operaie delle fabbriche che lavorano per due lire con orari massacranti e si spaccano la schiena no? Non è stupro anche questo?). Come se parlare di un produttore che usa il suo potere per forzare un'attrice a un rapporto sessuale togliesse spazio alla lotta contro la pedofilia o il traffico d’organi, ai diritti della classe operaia. E come se quelle che dopo anni denunciano un abuso che hanno accettato -se così si può dire-  di subire non siano vittime dello stesso sistema in virtù del quale quelle che non lo hanno subito non hanno fatto carriera.

Poi sono spuntati gli hashtag #metoo, e poi ovviamente le critiche agli hashtag #metoo.
Nella mia mente ha preso forma un consapevolezza: nonostante ognuna di noi sappia quanto sia schifosamente "normale" subire molestie e ricatti di vario grado nel corso della nostra vita di donne, raccontare un episodio più o meno grave che si sceglie di condividere, uscire dal silenzio, aiuta a sentirsi meno sole e a superare proprio quella sensazione di "normalità". Una denuncia a voce alta di quanto inaccettabili e colpevoli siano certi atteggiamenti, ci aiuta a ricordare quanto incolpevoli - e non complici per il semplice fatto di aver avuto paura per la nostra incolumità, per la nostra carriera, per la vergogna - siamo noi che li abbiamo subiti.
Per questo, fra le innumerevoli odiose circostanze che mi vengono in mente (dall'ex che reagisce alla decisione di chiudere il rapporto minacciando di pubblicare alcune foto intime [#metoo], ai selezionatori che durante un colloquio di lavoro ti chiedono se sei sposata o fidanzata come se ti chiedessero il titolo di studio [#metoo]), voglio prendermi il tempo di raccontare un piccolo disgustoso e grottesco episodio della scorsa primavera.

Ecco il mio piccolo #metoo:
Un amico di carissimi amici tempo fa mi fece un grosso favore accompagnandomi da una parte all'altra della Sicilia. E' bello pensare che fra gli amici valga una sorta di proprietà transitiva dell'affetto e di solito, con qualche margine di imperfezione e con le dovute eccezioni, la cosa funziona. Qui si racconta appunto la storia di un'eccezione.
Negli anni, l'amico dei miei carissimi amici - chiamiamolo M. - l'ho incrociato varie volte. E' sempre stato abbastanza cordiale e, sebbene non lo avrei definito amico in senso stretto, era comunque entrato nel cerchio delle persone che in qualche modo godono dell'amicizia riflessa da altri amici, ingresso spesso preludio di un'amicizia vera e propria. Io a questa persona dovevo una cena, era il patto stipulato quando, accompagnandomi da una città all'altra della Sicilia, insistette per offrirmi pure il pranzo. Qualche anno dopo, una sera della primavera di quest'anno appunto, ecco l'occasione per onorare l'accordo.

Cena moderatamente noiosa ma tranquilla, giro per un paio di bar subito dopo, riferimento da parte di una persona incontrata per caso a un post che su un blog mi colloca giocosamente fra le "dieci scrittrici più sexy del mondo". Questione che M. non conosce e che gli fornisce la prima occasione per farmi idealmente a pezzi: "idda sècchissi? ma chi ci avi di sècchissi, ci avi sulu un gran beddu culu e delle belle cosce" (trad. lei sarebbe sexy? ma che avrà mai di sexy, ha solo un gran bel culo e delle belle cosce). Incasso la volgarità senza dar seguito al vago fastidio che mi suscita, perché davvero, in fondo, non me ne frega niente.
Saliamo in auto e chiedo di andare a casa. lui dice "No, dobbiamo andare al porto!". Provo a insistere per andare a casa, ma poi cedo, anche perché lui ha già preso la direzione che gli pare. Quindi mi ritrovo al porto dove mi metto a parlare con pescatori nottambuli che con la canna da pesca sperano di prendere qualche cefalo che io spero di non trovarmi mai a mangiare, mentre alle mie spalle sento lo scroscio della minzione di M. nell'impatto con l'acqua, a un passo da me e a due dai pescatori. Va bene, anche di questo chi se ne frega.

Risaliamo in macchina e qui inizia la parte odiosa cui ancora dopo mesi mi ritrovo a ripensare con profondo fastidio.
Mi chiede: "Dove andiamo adesso?".
"Io vado a casa" rispondo.
Lui mi dice: "A casa non può essere".
"A casa deve essere" rispondo ancora.
"No, io speravo che questa era la volta buona che mi facevi vedere il tuo bel culo dal vivo" mi dice ritirando fuori l'odiosa vocazione da carnezziere.
Io rispondo: "Questa cosa non accadrà!". Ed è a questo punto che lui comincia a urlare incazzato, e che io devo ridimensionare il mio rifiuto perché il fastidio che avevo iniziato a provare si trasforma in timore. Sono da sola con lui che mi fa avances volgari nella sua macchina, di notte.
"Che cosa vuol dire non accadrà!", urla.
Io abbozzo, ridimensiono, sminuisco. Gli dico "Questa sera non accadrà, sono stanca e voglio andare a casa". L'addolcimento del rifiuto lo placa un po', ma non troppo. Inizia a offendermi, dicendomi che non sono femminile, che non ho niente di sexy se non il culo e le cosce, perché in realtà sono spigolosa. Gli dico con tutta la soavità possibile (perché il senso del pericolo è tale da spingermi ad addolcire il tono della voce, ma non a stare proprio zitta) che non credo che il culo e le cosce e la spigolosità siano parametri inopinabili di sex appeal o di quella che lui chiama femminilità e che comunque va bene, non ho niente di femminile ma in compenso ho voglia di andare a casa.

L'insulto continua, ma lui guida verso casa mia. Io non ho niente di femminile, non ho niente di sexy etc etc. Sproloquia offese fino a sotto casa. Lo saluto con la massima neutralità possibile perché ancora non ho chiaro cosa sia successo e come raccontare questo episodio a me stessa, ed esco dall’auto. Nel riferire la storia a un caro amico mi sono resa conto di vergognarmi della mollezza con cui ho dovuto ammorbidire il mio NO quando si è messo a urlare. Mi sono sentita in colpa per quella punta di paura che mi ha presa e mi ha spinta a trasformare quel NO in un Non ora.
Questa non è una storia grave, non è un vero e proprio abuso, non è una vera e propria violenza, non è neanche la molestia più pesante che ho subito.
Però, cos'è?

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