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L'artista indiano ha scelto come sede della sua Fondazione il prestigioso Palazzo Manfrin
di Lorella Giudici© Ufficio stampa
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"Sento un profondo legame con Venezia, la sua architettura e la sua vocazione per l’arte contemporanea". Ecco perché Anish Kapoor (Bombay, 1954), uno degli artisti contemporanei più conosciuti e più intensi, ha scelto Venezia come sede della sua Fondazione e il prestigioso Palazzo Manfrin, nel sestiere di Cannaregio, come quartier generale. In attesa di ultimare la ristrutturazione del settecentesco edificio (rimasto vuoto per molti anni e anticamente culla di alcuni dei più celebri dipinti conservati oggi nelle Gallerie dell’Accademia), Kapoor ha però voluto raccogliervi alcune delle sue opere storiche e una selezione di quelle più recenti.
Il percorso inizia con la monumentale Mount Moriah at the Gate of the Ghetto (2022), una gigantesca protuberanza in silicone che scende dal soffitto dell’androne come una costola di carne sanguinolenta o, se si vuole, come un monte di lava rovesciato. L’opera accoglie lo spettatore e lo prepara alle vorticose acque di Turning Water Into Mirror, Blood Into Sky del 2003 (una grande vasca circolare colma di un turbinoso liquido scarlatto) e a Destierro (2017), con un siderale caterpillar blu che trasporta tonnellate di impalpabile terra cremisi in un’epica e vana azione di sovvertimento. Da qui ci si infila poi in un dedalo di stanze con opere cruciali, tra cui l’iconica White Sand Red Millet Many Flowers (1982) e le eteree geometrie, perfette e algide, ricavate nei grandi massi di alabastro bianco. Non mancano le emblematiche superfici di metallo specchiante, dove paradiso e inferno, terra e cielo si mescolano e si capovolgono, mentre il pigmento blu dei suoi primi emisferi vuoti, profondo e misterioso come la laguna, è pronto a fagocitare chiunque si avvicini, sospendendolo in uno spazio senza tempo e senza appigli. Infine, l’installazione centrale, nel grande salone affrescato, è composta da un gigantesco sole bordeaux, che tramonta (o sorge) su grondanti blocchi di cera color lacca, disseminati sull’antico pavimento come resti tangibili e ancora “caldi” dopo l’attentato demolitore.
Venezia, dal canto suo, ricambia l’amore di Kapoor ospitando in contemporanea una sezione della mostra alle Gallerie dell’Accademia. Anche qui, la scelta è stata quella di esporre le meravigliose e impalpabili sculture degli esordi, con le loro forme euclidee, la pelle soffice come il velluto e silenziose come gli abissi (1000 Names), accanto alle ultime opere create con il “Kapoor Black”, un materiale innovativo che utilizza la nanotecnologia del carbonio per assorbire più del 99,9% della luce. Il risultato sono sagome assolute, capaci di appiattirsi se le si osserva frontalmente, ma che rivelano protuberanze appena si cambia prospettiva.
Non manca il famoso Shotting into the corner (2008-2009), con il gigantesco cannone che spara sui muri micidiali pallottole di cera rossa, ma per la prima volta Kapoor presenta anche Pregnant White Within Me (2022), un enorme rigonfiamento che, come una turgida vescica, si dilata nello spazio dell’architettura. Completano il percorso i quadri che indagano il motivo della piaga, della ferita, del tormento, con accumuli di silicone che hanno le sembianze della carne viva, pulsante e straziata. Certo, visivamente e tecnicamente c’è una grande differenza tra le opere in cui Kapoor cerca l’assolutismo della forma, il controllo, l’ordine e le installazioni (o le tavole) degli ultimi anni, dove ad andare in scena è il disordine, il tormento, le viscere, i brandelli di un’umanità dilaniata, deposti su fredde lastre di metallo o su grandi tavole verticali come fossero moderne crocifissioni.
Tuttavia, se guardiamo i contenuti le distanze invece si accorciano. Kapoor è sempre stato convinto che “come artisti non abbiamo altra scelta se non di guardare nell’oscurità”, là dove ci sono il terrore e la paura, là dove si nascondono i lati più segreti dell’uomo e del mondo. E se negli anni ’80 e ’90 lo sguardo era focalizzato sul mistero dell’universo, sullo spazio infinito, dove l’uomo non può che provare una pericolosa vertigine; oggi, l’occhio si posa direttamente sul corpo tumefatto e squarciato di un essere provato da pandemie, guerre e isolamento, per mostrarne tutta la sofferenza e la vulnerabilità.
Sessanta opere in tutto (visitabili fino al 9 ottobre 2022), che conferiscono alla mostra un carattere retrospettivo e che sono documentate da un esauriente catalogo edito da Marsilio.