Nel libro d'esordio di Luca Azzini prendono forma i contorni di una generazione e di un momento storico in cui la musica e la sua fruizione avevano un impatto sociale e culturale oggi impensabili
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A volte i dischi non sono solo dischi, ma molto altro: sono persone, viaggi, memorie, mondi interi. Attraverso delle piccole recensioni sentimentali di album più o meno epocali, in "Scrivevamo sulle scarpe" - libro d'esordio di Luca Azzini - prendono forma i contorni di una generazione e di un momento storico in cui la musica e la sua fruizione avevano un impatto sociale e culturale oggi impensabili. Un progetto sospeso tra narrativa e rock, nato come blog su Instagram, che in questa nuova dimensione diventa quasi romanzo di formazione obliquo e discontinuo. Un racconto del passaggio all'età adulta, tra gioie e perdite, lotte e traguardi raggiunti. Testimonianza di quella parte di mondo che trovava la propria strada anche grazie a rumorose epifanie di tre minuti e mezzo.
Scrivevamo sulle scarpe
Luca Azzini
Dialoghi
Pagine 128
14,00€
L'autore
Luca Azzini è nato nel 1979 in provincia di Milano e cresciuto in Brianza, dove vive e lavora tuttora. Si è laureato in Lingue e Letterature straniere all'Università degli Studi di Milano, e negli anni Duemila ha collaborato come dj con numerosi locali lombardi. Nel 2020 ha creato il profilo Instagram "lamiavitain400dischi". "Scrivevamo sulle scarpe", il suo primo libro, ne è raccolta, resoconto e rimescolamento.
Un estratto per i lettori di Tgcom24
La prima volta che acquistai un disco avevo undici anni e una manciata di mesi, lo ricordo perfettamente perché era l'estate dei Mondiali di Italia '90, Baggio aveva appena steso la Cecoslovacchia dopo aver danzato per cinquanta metri col pallone fra i piedi, con lo stadio Olimpico di Roma che pareva il Bolshoi, incendiando di gioia interi condomini ricolmi di uomini in canottiere bianche e mogli accaldate che sbirciavano con pigrizia. Solo un paio di settimane dopo sarebbero arrivati l'Argentina, Maradona, la nuca di Caniggia e i calci di rigore a riportare tutto alla consueta e stanca normalità.
Andai al negozio con mio padre, sentivo il cuore palpitare sempre più selvaggiamente dopo ogni pedalata, io cavalcavo una Graziella azzurra abilmente modificata e molto punk, lui mi seguiva ciondolante in sella a una di quelle mountain bike dagli sgargianti colori fluo assai in voga allora.
Entrò circospetto in quel luogo angusto e male illuminato del quale neppure conosceva l'esistenza, nonostante costeggiasse le vie centrali del paese in cui abitavamo. I baffi, ancora nerissimi in quegli anni, si misero all'erta, attenti nel cercare di capire in quale razza di mondo si sarebbe ficcato il proprio unico figlio. Cincischiò in modo superficiale e distratto con qualche disco di musica italiana, alla ricerca di nomi amici che lo facessero sentire meno a disagio. Lo vidi chiaramente scuotere la testa sconsolato quando l'occhio gli cadde sul settore del negozio dedicato al metal e ai suoni più pesanti, poco convinto dai bizzarri e capelluti abitanti che lo popolavano. Malgrado la sua ritrosia e una sempre più impellente necessità di tornare a casa, mi diede piena libertà di scelta e non mi mise fretta alcuna, concedendomi tutto il tempo che mi serviva per orientarmi e muovermi là dentro.
Mentre scorrevo gli artisti in metodico ordine alfabetico, alla ricerca del mio sonico Graal, il volto e gli occhiali di John Lennon mi vennero in soccorso, fu la prima di una lunga serie di volte. Era una delle sue ultime foto: capelli corti, niente barba, rughe che non avevano nulla a che fare coi Beatles. Mi colpirono i piedi nudi e le gambe incrociate. Lo estrassi dallo scaffale riservato alla lettera 'L', scorsi i titoli sul retro di copertina: era una raccolta dei suoi lavori da solista, qualcosa mi suonava familiare, lo mostrai trionfante a mio padre, ormai stremato anche dalla musica in sottofondo. Approvò col pollice alzato, sapeva che era finita. Ero certo che la prossima volta ci sarei andato da solo; una delle sensazioni più belle della mia ancora breve vita.