Mario Sironi, dalla tragicità della vita alla monumentalità delle idee
© ufficio-stampa | Solitudine. 1925
© ufficio-stampa | Solitudine. 1925
Dagli esordi all'apocalisse, novanta opere in mostra a Roma al Vittoriano raccontano uno dei più grandi maestri del Novecento italiano
Picasso ci aveva messo in guardia: “avete un grande Artista, forse il più grande del momento e non ve ne rendete conto”. Parole cadute nel vuoto per decenni. Tant'è che ci sono voluti più di cinquant'anni e un attento lavoro di revisione critica (che lo ha giustamente scagionato da giudizi politici o superficiali letture storiche) per comprendere che Sironi è stato e continua ad essere un Maestro a livello europeo. Le 90 opere selezionate da Elena Pontiggia per la bella retrospettiva al Vittoriano di Roma (fino all'8 febbraio 2015) lo dimostrano.
© ufficio-stampa | Solitudine. 1925
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Più di sessant'anni di lavoro, dagli esordi simbolisti (indagati per la prima volta e per la prima volta esposti) al momento divisionista, dal periodo futurista a quello metafisico, dal Novecento Italiano alla pittura murale fino alle opere del secondo dopoguerra per arrivare all'Apocalisse del 1961, raccontano una ricerca che è una lezione di tragedia (cioè di drammaticità, forza e espressività) ma anche di monumentalità (intesa come grandezza, solennità, volume e equilibrio). Aspetti che Sironi deriva dalla storia (che sente come stratificazione di un tempo eterno e solido, oltre che come incontro col mito) e da quella classicità, che fin da bambino respira nella Roma del Colosseo, dell'Arco di Tito, della colonna Traiana e che lo portano a solidificare la luce, il segno, i volumi e persino i pezzi di carta dei suoi collage futuristi . Non a caso, a Sironi è stato spesso affibbiato l'appellativo di architetto, perché alla base della sua pittura (ma anche della sua scultura e dei progetti per le vetrate) c'è sempre un forte senso di costruzione.
In mostra, capolavori come La lampada (1919), Paesaggio urbano (1920), L'architetto (1922-23) ci introducono in questo immobile e silente mondo sironiano, dove quello che conta non è solo ciò che si vede, ma piuttosto ciò che si pensa. La ragione viene prima del sentimento, la regola e l'ordine sottomettono il caos. Per cui, le deserte periferie con gli scheletri dei gasometri all'orizzonte (forse la serie più conosciuta) o le figure monumentali dai lineamenti riassunti e squadrati (che troveranno largo sfogo negli anni trenta con la magnificenza della pittura murale) non fanno che accentuare il peso di questi pensieri. Per cui, La famiglia (1927-28), ad esempio, trova la sua sacralità nella semplicità austera e pastorale di un'origine primigenia, nei valori di una vita fatta di solidarietà e principi, amore e legame ancestrale con la terra; mentre sulle spalle curve della Solitudine (1925) grava tutto il peso delle linee architettoniche di una scenografia metafisica, delle ombre marcate e di uno stato d'animo che pietrifica la donna in un'attesa senza tempo e senza soluzione.
Anche nell'ultima stagione, quella della Penitente (1945), quella delle figure schierate come ideogrammi su fondi gessosi o argillosi, fino alla già citata Apocalisse (1961), Sironi non risente di alcuna stanchezza creativa, anzi, fino alla fine, nonostante il frammentarsi delle immagini come fossero reperti archeologici, al centro resta l'idea di una monumentalità che però, come fa notare Elena Pontiggia nel suo testo in catalogo, non è più opera della storia ma della natura.
Sironi 1885-1961
Complesso del Vittoriano
dal 4 ottobre all'8 febbraio
per informazioni: www.comunicareorganizzando.it/