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Una mostra allestita nelle sale del piano nobile di ACP – Palazzo Franchetti di Venezia (dal 23 maggio al 30 settembre) propone una raccolta di dipinti del pittore
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"L’influenza che subii più a lungo fu quella dell’arte etrusca che nel 1928 diede una svolta alla mia pittura. […] in una visita a Roma nel Museo di Villa Giulia mi trovai pronto a ricevere in pieno il coup de foudre. […] Mi riconobbi negli etruschi". A scrivere queste parole è Massimo Campigli che in età matura, riguardando agli anni giovanili, quelli compresi fra l’arrivo a Parigi nel 1919 e la sua partecipazione alla Biennale di Venezia del 1928, ammette un amore a cui è poi rimasto sempre fedele. Campigli si era fermato a Roma quando, allontanatosi da Parigi, voleva raggiungere la Romania, è stata una tappa breve, ma importante.
"Avevo naturalmente già visto arte etrusca nelle riproduzioni e anche al Museo di Firenze", confessa ripercorrendo la propria storia; "ma si ha un bel vedere un’opera d’arte, se non siamo maturi per essa è come se non la vedessimo". Davanti ai reperti di Roma non solo si sente maturo, ma ne rimane folgorato. Tuttavia, per quanto profondo e veritiero, quell’amore non è però da leggere come fedele e pedissequa citazione delle fonti, ma piuttosto come un repertorio di colori e forme "primitiviste" con cui nutrire la propria pittura.
Che cosa coglie Campigli dell’immaginario etrusco? In prima battuta la caratterizzazione tipologica delle figure, che si allontanano dal concetto del ritratto tradizionale per assumere una funzione simbolica e ideale. La figura umana, ispirata alla vita reale ma allo stesso tempo astratta da essa, diviene simbolo espressivo, aperta all’interpretazione ed espressione di un linguaggio dalle forme semplici, ma dai contenuti complessi.
Centrali sono anche il sorriso arcaico, che accomuna le rese convenzionali dell’Apollo di Veio (ritrovato negli scavi archeologici condotti da Giulio Quirino Giglioli nel 1916 ed esposto, con un nucleo di terrecotte veienti, nel 1918 nel Museo di Villa Giulia in una nuova sala, appositamente allestita) e dei sarcofagi "degli Sposi" (di cui l’artista ebbe esperienza sia nella versione esposta a Villa Giulia, che in quella del Louvre), e i gioielli, di cui le esposizioni etrusche proponevano tanto riproduzioni scultoree, quanto esemplari reali, dal gusto elaborato e calligrafico.
Un colloquio con l’antico che si concretizza nella sua pittura in un sapore antico, fatto di colori tenui e polverosi, come ad affresco, così simili a come il tempo ci ha restituito le immagini etrusche. Quelle di Campigli sono forme plasmate secondo il disegno di statue votive o di anfore, di figure femminili con busti a clessidra che si astraggono in immagini atemporali.
Un dialogo intenso e molto personale che rivive appieno nella bella mostra allestita nelle sale del piano nobile di ACP – Palazzo Franchetti di Venezia (dal 23 maggio al 30 settembre) e che propone una raccolta di dipinti di Campigli (che spaziano dal 1928 al 1966) accanto a reperti etruschi – vasi, statuine, gioielli e sarcofagi – con cui si instaura una naturale condivisione di atmosfere, segni e colori.
Due opere, Busto con vaso blu e Zingari, sono proprio del 1928 e segnano chiaramente il passaggio verso una nuova figurazione, che si fa sempre più evidente in opere come Donne con l’ombrellino del 1940 fino alla Donna seduta del 1961. La ricchezza tipologica dei reperti in mostra permette di rintracciare un alfabeto e un universo di legami che vanno dalla figura umana agli animali fino alle forme geometriche colti con sempre più puntualità e consapevolezza. Molti dei reperti sono inediti e una nota la meritano i due preziosi sarcofagi in terracotta del Museo Civico di Viterbo: un sarcofago femminile della seconda metà del III sec. a.C. e un sarcofago maschile della fine del III, inizio del II sec. a.C.
Il percorso espositivo ha anche il merito di mettere in luce come il tempo non sia riuscito a scalfire l’essenza contemporanea dei dipinti di Campigli, ma anche degli oggetti etruschi che dopo secoli mantengono intatto il loro fascino, l’eleganza e la bellezza essenziale delle loro forme che, non a caso, hanno affascinato anche scultori del calibro di Arturo Martini e Marino Marini.