In mostra fino al 6 ottobre

Remo Bianco. Le impronte della memoria

Al Museo del Novecento di Milano fino al 6 ottobre esposte oltre settanta opere dell'artista lombardo

di Lorella Giudici
04 Lug 2019 - 18:15
 © ufficio-stampa

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Si muovono sempre sul filo della memoria, tra schegge di tempo e frammenti di materia, intessute di silenzi sospesi, vuoti metafisici, bagliori aurei e stratificazioni geologiche le opere di Remo Bianco (Milano 1922-1988). Con ostinazione raccolgono, riuniscono e catalogano una dopo l’altra le piccole tracce della vita perché, come avrebbe detto Pavese, “non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi”.

Remo Bianco, le impronte della memoria

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E l’amara consapevolezza che tutto è momentaneo, provvisorio, effimero e che l’istante è la vera unità di tempo dell’esistenza, Bianco l’aveva maturata ancor prima di cimentarsi con i pennelli, quando a soli diciassette anni aveva cominciato a frequentare colui che ha sempre considerato un maestro di vita prima che di arte: Filippo de Pisis. Per Bianco, la malinconica fugacità del reale diviene l’ossessivo e caparbio tentativo di salvaguardare un catalogo infinito di oggetti minuti, rimasugli ormai inutili, lacerti di una metafisica spicciola e elementare. Giocattoli, scampoli di stoffa, pezzi di carta, quisquiglie domestiche diventano reperti preziosi. E per non farseli sfuggire li seppellisce sotto una coltre di neve artificiale (Sculture neve), li clona nella gomma o nella carta (Impronte), li chiude come referti in sterili sacchettini di plastica (Testimonianze) o li rievoca tra i magici riflessi di riquadri dorati (Tableaux dorés). 
 
Dall’incontro con de Pisis, che lo aiuta a muovere i primi passi nell’arte e lo guida verso la pittura francese, in particolare verso l’impressionismo; al viaggio in America che gli fa incontrare Pollock e l’Espressionismo astratto; alla frequentazione della Galleria del Naviglio, dove si lega a Carlo e a Renato Cardazzo, a Lucio Fontana, ai giovani spazialisti e agli esponenti del movimento nucleare; fino alla conoscenza di Beniamino Joppolo e di Pierre Restany, mentore del Nouveau Réalisme, per quattro decenni Bianco ha vissuto appieno la ribalta dell’arte e con una parte di primo piano, moltiplicando i percorsi espressivi, intuendo prima di altri la direzione da prendere, reinventando in un modo tutto personale i linguaggi più moderni e i nuovi materiali, tanto che sarebbe impossibile isolare la sua ricerca dal fervido contesto in cui è nata, in primis dalla Milano degli anni cinquanta e sessanta. 

L’intento di questa sua mostra al Museo del Novecento di Milano è di fare un po’ di chiarezza, attraverso le opere (una settantina) e con l’aiuto dei preziosi documenti conservati nell’archivio della Fondazione Remo Bianco (alcuni praticamente inediti), se non su tutti, almeno su alcuni dei suoi cicli espressivi più intensi, a partire dalla Impronte, uno dei periodi più originali della sua produzione, passando dalle Pagode (grazie alle quali si chiamano in causa i Collages e i Tableaux dorés, forse la serie che gli ha regalato più visibilità e successo), per soffermarsi sui Sacchettini, sulle opere tridimensionali, sulle Sculture neve e sui meravigliosi Quadri parlanti.

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