In mostra l'artista che non racconta l’America dei grattacieli, di Amstrong o di Al Capone, ma disegna case coloniche, mansarde vittoriane, città dove tutto è immobile e senza tempo
di Lorella GiudiciNel 1960, a settantotto anni, Edward Hopper (1882-1967) dipinge uno dei suoi quadri più coraggiosi: Second story sunlight. La scena, vista come attraverso una macchina da presa, riprende due donne sulla terrazza di una casa in un’anonima cittadina americana: una, giovane e avvenente, indossa un bikini e siede sulla balaustra come se posasse per un servizio fotografico; l’altra, più anziana e intabarrata in un austero abito nero, è intenta a leggere un foglio, comodamente seduta su una sedia. L’opera viene acquistata dal Withney Museum che, come d’abitudine, fa compilare all’artista un questionario. Hopper vi riporta una sola osservazione: "E' un tentativo di dipingere la luce del sole bianca, con nessuno o quasi nessun pigmento giallo nel bianco. Ogni interpretazione psicologica dovrà essere aggiunta dall’osservatore".
E la tela è un capolavoro: di luce (che immobile, netta e diamantina disegna le geometrie delle case, per poi rifrangersi in un ultimo riquadro sul muro della parete interna), di mistero (nascoso nelle ombre del fitto bosco a ridosso delle abitazioni e nell’oscurità delle loro finestre), di silenzio (nella fissità della scena e nell’incomunicabilità delle sue donne, lontane per età, atteggiamento e spazio) e di colore, per cui il verde acido delle tende e quello più scuro delle chiome degli alberi contrastano con il rosso del comignolo e dello spicchio di tetto del portico, mentre il bianco è pietrificato dai grigi delle ombre e dai neri dei tetti.
Per queste sue atmosfere metafisiche, Preston lo ha definito “il de Chirico americano”. In effetti, Hopper non racconta l’America dei grattacieli, di Amstrong o di Al Capone, ma disegna case coloniche, mansarde vittoriane, città dai marciapiedi deserti, dai negozi chiusi, dalle tende abbassate e dove tutto è immobile e senza tempo.
Dipinge rotaie su cui non corrono mai treni, pompe di benzina senza auto, sottoscala e tunnel ferroviari avvolti nell’inquietante oscurità dell’attesa. E gli uomini, quando compaiono, o siedono dietro alle vetrine di bar deserti e silenziosi o calcano scene dai sipari chiusi, oppure sono tra le mura domestiche e noi rubiamo loro qualche istante di vita passando davanti alle finestre delle loro case e spiando nei loro uffici.
Su questo e su molto altro si sofferma la bella mostra in corso a Palazzo Fava (fino al 24 luglio), curata da Barbara Haskell, responsabile del Whitney Museum of American Art, in collaborazione con Luca Beatrice.
Inoltre, durante il periodo di mostra, sono previste numerose iniziative collaterali: dal 7 aprile al 26 giugno il Museo Morandi presenta un focus di paesaggi morandiani in un interessante dialogano a distanza con le opere dell’artista americano; la Fondazione Cineteca propone una rassegna che racconta l’influenza di Hopper sul cinema, a partire dal cinema noir, passando per Hitchock fino ad arrivare a Shirley - Visions of Reality di Gustav Deutsch (2013); l'Istituzione Biblioteche organizza alcune conferenze dedicate al rapporto fra la pittura di Hopper e la contemporanea letteratura americana.
Edward Hopper
25 marzo - 24 luglio 2016
Palazzo Fava, Bologna