Da direttore creativo della maison Moschino al lancio del suo brand: abiti per donne che hanno il coraggio di essere se stesse
di Elena MisericordiaRossella Jardini, la Signora della moda, mi riceve nel suo appartamento milanese dei primi del Novecento. In un’atmosfera calda e luminosa, colori, fogge ed epoche così diverse tra di loro si fondono in un perfetto equilibrio. Una sapiente e giocosa mescolanza di stili, che segue però lo stesso linguaggio estetico, quel filo conduttore che rende armonica ogni cosa.
Classe innata, gusto raffinato, irriverente intelligenza, inconfondibile carattere e personalità. Eleganti si nasce. E la Signora Jardini, è proprio il caso di dirlo, ha l’eleganza scolpita nel dna. Donna curiosa, aristocratica, ironica e disinvolta, può permettersi qualsiasi cosa, anche di sovvertire stereotipi e cliché, indossando un abito da cocktail di prima mattina. Perché lei, con il suo naturale aplomb, le regole le fa.
Negli anni’80 l’incontro con Franco Moschino, di cui è diventata grande amica, musa ispiratrice, braccio destro.
Un rapporto fraterno di complicità assoluta, nel lavoro come nella vita privata. Per vent’anni al timone della Maison in veste di direttore creativo, nel 2015 la decisione di intraprendere una nuova strada e di lanciare il marchio che porta il suo nome. Abiti pensati per piacere alle donne e valorizzarle. Colori decisi, geometrie, giochi di volume, qualità dei materiali, rigore serioso, interpretato però sempre con sottile umorismo. La donna Rossella Jardini ha il coraggio di osare e di credere in se stessa, proprio come la sua creatrice.
Ma chi era Rossella Jardini prima di diventare l’icona di stile e di eleganza che noi tutti conosciamo? C’è stato un momento in cui ha capito di appartenere al mondo della moda?
Tutti i miei ricordi, sin dall’infanzia, sono legati ai vestiti. La passione per la moda è sempre stata dentro di me, credo di averla ereditata in parte da mia mamma, da cui ho preso il portamento, l’altezza, il gusto raffinato, ma anche moltissimo da mia nonna: dalla Val Seriana, dove viveva, in provincia di Bergamo, veniva a Milano in carrozza, affrontando un viaggio di due giorni, pur di andare ad acquistare i suoi capi da Galtrucco. Ero una bambina molto piccola, ma avevo già una mia precisa idea sugli abiti che avrei voluto indossare. All’epoca non c’erano negozi di abbigliamento per ragazzine e, quando la sarta veniva a casa nostra, facevo i capricci perché ad esempio volevo la gonnellina più corta oppure i bottoncini ricoperti e le asoline…ricordo un vestito scozzese, a vita bassa, con il colletto tondo in piqué bianco. Anche quando mi sono sposata, a diciassette anni, ho disegnato io il mio vestito.
Quando ha realizzato che questa sua passione innata avrebbe conquistato tutta la sua vita, trasformandosi anche in un lavoro?
Sin da quando ero molto giovane, anche per rapporti di natura familiare, lungo la mia strada si sono affacciati personaggi di rilievo del mondo della moda: mia cognata, ad esempio, era la moglie del fratello maggiore di Nicola Trussardi. Insieme a lei e con l’aiuto di Anita Paltrinieri, che allora si occupava degli ordini per Elio Fiorucci, in un piccolo cortile molto grazioso della mia città, ho avviato una boutique di abbigliamento: si chiamava “Il Pomeriggio”, perché apriva soltanto nella seconda metà della giornata. Vendevamo articoli a dir poco originali per la Bergamo di quegli anni, tra cui marchi giapponesi d’avanguardia, come Issey Miyake, di cui ero un’appassionata. Terminata quest’avventura, ho lavorato un anno con Nicola Trussardi e sono entrata in contatto con Michele Taddei, proprietario di Bottega Veneta. E’ stato così che, piano piano, si è delineato quello che poi sarebbe stato anche il mio cammino professionale.
Com’è nata la sua intensa collaborazione e profonda amicizia con Franco Moschino?
L’incontro con Franco Moschino è avvenuto grazie ad amici comuni. Mentre svolgevo attività di ricerca per il piccolo negozio di Bergamo, ho incontrato due ex modelli, uno svizzero e l’altro argentino, che avevano creato una loro linea di abbigliamento, L’Alveare. Appena li ho visti, mi sono invaghita di loro ed è iniziata la nostra collaborazione. Era un progetto molto naïf, anche se presentavamo le nostre creazioni nelle stanze di Giuseppe Verdi e chiamavamo le modelle da Parigi, cosa inusuale per quegli anni, in cui imperversavano i soliti nomi italiani. Tramite questi due ragazzi, ho conosciuto Franco ed è subito scoccata la scintilla. Mi ha chiesto infatti di andare a lavorare con lui da Cadette, per i Signori Fantoni. Insieme abbiamo realizzato due collezioni, dopodiché ho iniziato la mia attività presso Bottega Veneta, dove mi sono occupata degli accessori, borse e scarpe, con il grande maestro Andrea Pfister. Quando però Franco ha lanciato la sua prima linea personale e mi ha chiamata da lui, non ho avuto un solo attimo di esitazione. Da Bottega Veneta guadagnavo già una cifra importante, ma ho deciso di seguire il mio sogno, sia pure per un quarto di quello stipendio!
Mi descriverebbe il suo rapporto umano e professionale con il Signor Moschino?
Tra me e Franco si è subito creata una sintonia totale, lui cominciava una frase ed io la terminavo, e viceversa. Ho lavorato con lui su tutte le linee, tranne che sulla comunicazione, perché questa era una sua prerogativa, il suo punto di forza, che s’inventava lì per lì. Arrivava una mattina e mi diceva: “Voglio fare una campagna pubblicitaria dove indosso una parrucca bionda” e per me, di educazione rigorosamente borghese, ogni volta era un tuffo al cuore. Ma le sue idee si sono sempre rivelate vincenti. Le sue creazioni venivano spesso definite “trasgressive”, ma io non credo che lo fossero, avevano sempre un fondo di ironia intelligente. Ho vissuto per anni in un ambiente gay molto spensierato. Eravamo amici di Kenzo e di Xavier De Castella. Io e Franco lavoravamo insieme e trascorrevamo insieme anche le vacanze; andavamo sempre a Saint Tropez. Poi disgraziatamente è arrivata la malattia. Il fatto che il Signor Moschino sia stato malato quasi tre anni non ci ha tuttavia impedito di continuare il nostro progetto, anche se per un anno ad esempio lui ha deciso di dedicarsi esclusivamente ai suoi quadri, lasciando a me l’intera responsabilità delle collezioni, ma non è stato difficile, visto il rapporto di profonda empatia che ci legava. Tutte le persone che lavoravano con me e con Franco lo hanno amato. Ho sempre pensato che, quando è morto, la sua energia si sia trasferita dentro di noi. Infatti il team originale, quello storico, è rimasto unito ed ha avuto la forza di andare avanti per tanti anni, anche dopo la sua scomparsa. Alla mia domanda su cosa avrei fatto senza di lui, Franco mi rispose: “Trasforma la maison Moschino in una macchina che produca soldi per fare del bene agli altri”. Questa volontà per me è diventata il suo testamento. E’ stata infatti creata la “Fondazione Franco Moschino” che si è occupata soprattutto di bambini bisognosi. Quando è caduto il regime di Ceausescu, insieme a Pietro Barilla, abbiamo rimesso in funzione il reparto pediatrico dell’ospedale di Bucarest e, legandoci alla Organizzazione Mondiale della Sanità, abbiamo acquistato dei camion-ospedale per curare i bambini lungo tutte le strade della Romania. Quando la Maison è stata venduta, ho chiesto che il 20% dell’incasso venisse devoluto alla Fondazione, come capitale per andare avanti nella sua missione.
Una lunga storia d’amore con la maison Moschino, di cui è stata anche direttore creativo per oltre vent’anni. Dal 2015 ha lanciato il brand che porta il suo nome. Com’è maturata dentro di lei questa decisione?
Dal ’94 – anno della morte di Franco – al 2013, sono stata il direttore creativo della maison Moschino. Quando è subentrato Jeremy Scott, per un po’ di tempo ho fatto la “stagista di lusso” da Alberto Aspesi, quindi una breve collaborazione con Missoni e, finalmente, mi sono concessa un break. Non ero mai riuscita a fare le vacanze scolastiche e questo era uno dei miei desideri! Finché un giorno ho incontrato un mio vecchio collaboratore, Fabrizio Talia, con cui abbiamo pensato di dar vita ad un nostro piccolo progetto, iniziando semplicemente con una decina di camicie…da lì è ricominciato tutto! Nel 2015 è nato il brand Rossella Jardini. Avevo pensato di far rivivere il marchio Cadette, ormai libero da ogni vincolo, ma alla fine ho scelto il mio nome, più o meno conosciuto non importa: sono io.
Il logo del suo brand ritrae il suo sguardo, intenso ed ironico, incorniciato dall’immancabile montatura di occhiali. Cosa rappresenta per lei questo accessorio?
L’etichetta del mio marchio è stata disegnata da Antonio Pippolini, che in passato aveva lavorato per me come grafico. Porto gli occhiali da molti anni, a seguito di un rigetto totale delle lenti a contatto, a quel punto ho deciso di trasformarli in un mio elemento caratterizzante. Oltretutto ho acquisito sul campo una certa dimestichezza con questo accessorio: mi sono occupata della realizzazione di occhiali per tutta la vita, all’inizio per Persol, poi anche per Del Vecchio. Posso dire che ormai fanno parte del mio essere, come i miei bijoux.
Il suo talento sino ad oggi aveva sempre alimentato le collezioni di un marchio altrui. Adesso che cosa è cambiato?
In passato sono sempre stata restia ad apparire in prima linea, volevo soltanto che vivesse il marchio Moschino. Franco stesso non era solito comparire al termine delle sue sfilate; lo ha fatto una sola volta, ma per ricacciare dentro le modelle. Sono stati Franca Sozzani e Luca Stoppini a spronarmi a rompere le righe e a mostrarmi al pubblico. Mi è costato grande fatica, ma adesso ormai mi sono abituata. In questi tempi, tra l’altro, tutto è cambiato per effetto dei social network: sono più famosa oggi che non anni fa! I social hanno amplificato la mia figura di “icona”, come amano definirmi, mentre io mi vergogno un po’…
Com’è la donna Rossella Jardini?
La figura femminile che desidero affermare ha una personalità decisa e il coraggio di essere se stessa. Le donne, ai nostri giorni, sono ancora abbastanza insicure, hanno paura dei giudizi dei mariti, non sono capaci di osare. Cercano tutte un conforto rassicurante nell’abito nero. Io tento di convincerle che ci si può vestire anche di rosso, di fucsia, di stampe…Personalmente mi sono sempre disinteressata del giudizio degli uomini, a diciott’anni giravo per Bergamo con degli shorts cortissimi, una mantella, un cappello a tesa larga e calzando ai piedi degli zoccoli…mio marito, al ritorno dal mio primo viaggio a Londra, mi chiese di camminare ad alcuni passi di distanza perché non voleva che la gente per strada ci associasse!
Quali sono gli elementi fondamentali su cui si basano le sue creazioni?
Il punto di partenza delle mie creazioni sono le basi classiche che, di volta in volta, vengono reinterpretate. Mi ricordo che, quando Franco mi lasciava sul tavolo le indicazioni per le sue collezioni, c’erano sempre: una giacca doppiopetto, una giacca a tre bottoni, una gonna a pieghe, una camicia bianca, una camicia da uomo, una sottoveste e un trench. In una collezione che si rispetti non può mai mancare una camicia con fiocco, in omaggio a Yves Saint Laurent, e un abito a pois. Quale donna di buonsenso non ama i pois?! Lavoro poi molto sui capospalla, puntando su dei giochi di volume. Nella prossima collezione ho reintrodotto la flanella in tanti pesi diversi. Ho il culto dei tessuti e della materia prima. Riconosco su tutto l’importanza della qualità e della vestibilità: gli abiti devono stare addosso, non devo scivolare via dal corpo.
La sua è una moda fatta da una donna per altre donne. Qual è il valore aggiunto?
Una donna quando realizza un abito pensa anche di poterlo mettere, sono sempre vestiti creati per essere portati da altre donne e che rispondono alla domanda: “Io questo capo lo indosserei?”. Quando Nicholas Gesquière disegnava per Balenciaga, mandava in passerella bellissimi vestiti in neoprene, tutti intrecciati, ma poi lui usciva al termine della sfilata con un golfino blu e una t-shirt bianca. La mia moda quindi risponde a due canoni fondamentali: portabilità e gusto femminile.
Lei è “un Capricorno ascendente Hérmes”, per utilizzare le parole con cui amava descriverla Franco Moschino. Che cosa intendeva?
In realtà era lo stesso Franco a viziarmi con Hérmes. Quando andavamo a Parigi, uscendo dal negozio trovavo sempre, a mia insaputa, una commessa con il pacchetto pronto per me: lui mi regalava tutto quello che desideravo. Hérmes, dal mio punto di vista, è l’unico angolo del lusso vero che sia ancora rimasto. Per quanto riguarda la qualità delle scarpe, delle borse, delle cinture e della pelletteria in generale è assolutamente ineccepibile. Mi ricordo che, quando sono andata a ritirare la mia prima Kelly verde foresta con Piero, che poi sarebbe diventato il mio compagno ormai da quasi trent’anni, al momento di pagare mi ha detto: “Ma ti rendi conto che costa quasi come una Panda?”. Tuttavia, quando mi domandano perché acquisti le borse di Hérmes, la mia risposta è sempre la stessa: “Perché mi durano tutta la vita”. Prediligo comunque i modelli classici, non le trasformazioni stagionali. C’è stata una fase in cui avevo deciso di non comprare più Hérmes perché troppo inflazionato: tra originali e copie, vedevo in giro soltanto birkin grigie e azzurre. Non si comprano i falsi, è proibito dalla religione!
Quando non veste i panni della stilista, come le piace trascorrere il suo tempo?
Adoro il mare, anche d’inverno. Sono un’appassionata di cinema: seguo come un faro Mariarosa Mancuso, critica cinematografica de Il Foglio. Mi piacciono le giornate in famiglia, con i miei nipoti, che sono tutti acquisiti perché non sono mai stata mamma; sono i nipoti del mio compagno e di mia sorella. E poi ci sono i miei due amori, i miei cani: Charlie e Jolie.
Cosa indossa Rossella Jardini in una giornata qualunque?
Mi vesto da uomo, nel senso che indosso dei pantaloni dal taglio maschile e una camicia bianca. Abitualmente la mattina preparo sul letto il mio look della giornata: la gonna, il golf o la camicia, la giacca, poi seleziono le scarpe e le calze. Ecco, in un giorno di riposo non seguo questa abitudine, prediligo un abbigliamento più pulito, senza fronzoli, mi limito ad infilarmi dei pantalonacci di cotone e una camicia, magari in denim, e una giacca blu. Nel mio armadio però non ho neanche una tuta. Per citare Karl Lagerfeld, sono dell’idea che “avete perso il controllo della vostra vita, se uscite con la tuta”!
In questo momento storico, qual è il peccato di stile che rimprovera alle donne?
Le donne non usano più il cappotto, il paletot, come si diceva una volta. In giro non vedo altro che piumini. Quando lavoravo da Moschino, andavo a piedi in via San Gregorio e contavo tutti quelli che incontravo sul mio cammino; se per sbaglio m’imbattevo in un cappotto, mi fermavo a complimentarmi con la signora che lo indossava. Riconosco che il piumino sia un indumento comodissimo, ultraleggero, molto caldo. Però…il paletot da uomo, blu, doppiopetto, in fatto di stile è impareggiabile. La cosa che in ogni caso detesto di più in assoluto sono le décolleté bianche, di vernice, con tacco alto: è un accessorio di fronte al quale mi si stringe davvero il cuore.
In una carriera costellata di traguardi raggiunti con successo, qual è il sogno che si deve ancora avverare?
Vorrei avere la possibilità di ingrandire il mio studio per poter riprendere a lavorare con me i collaboratori storici, in modo da ricreare la nostra “famiglia”. Inoltre mi piacerebbe insegnare ai giovani, ma non nelle scuole costose. Vorrei avere al mio fianco dei ragazzi di talento e farli crescere. Ci vogliono però vera passione e curiosità. Vieterei innanzitutto l’uso dei computer, bisogna documentarsi e toccare con mano. Franco, che guardava persino la tv senza audio, se vedesse al giorno d’oggi l’uso smodato di queste applicazioni social, penso che abbandonerebbe addirittura questo mestiere, più probabilmente aprirebbe un ristorante! Credo nell’importanza della gavetta, non come adesso che i giovani stilisti vengono catapultati da un giorno all’altro alla direzione creativa di marchi prestigiosi, in un business infernale, un po’ come carne da macello. Sono sempre stata seguace della scuola giapponese, dove i grandi stilisti, come Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo, hanno formato i propri delfini. Da noi purtroppo non esiste questa cultura del far crescere e tramandare. Per me invece sarebbe un modo intelligente di continuare a far vivere l’arte della moda.