Simona Ravera, psicologa, racconta a Tgcom24 la sua esperienza: una vita con tante difficoltà e un amore infinito per Chiara
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Disturbo pervasivo dello sviluppo: è così che si può definire l’autismo. Una condizione di cui ancora non si sa molto, ma che è in sensibile aumento. Come si sente, cosa prova un genitore che riceve una diagnosi di autismo? Cosa succede nella vita delle famiglie? Quali prospettive, quale futuro può avere una persona autistica? Abbiamo chiesto a Simona di raccontarci la sua storia: da aiuto e supporto per i piccoli pazienti affetti da disturbi del comportamento, a mamma di Chiara, autistica.
L'autismo è una condizione che colpisce prevalentemente i maschi (4-5 volte più delle femmine) e che esordisce nei primi tre anni di vita; può essere accompagnato da un ritardo mentale lieve, medio o grave coinvolgendo principalmente tre aree: il linguaggio e la comunicazione, l'interazione sociale e interessi ristretti e stereotipati.
Simona, sei una psicologa. Di cosa ti occupi esattamente?
Come psicologa e psicoterapeuta mi occupo da sempre di disturbi dell’apprendimento e del comportamento.
Negli anni mi sono specializzata nella cura di persone autistiche, nel supporto alle famiglie e nella progettazione di opportunità che migliorino la qualità della vita delle persone.
Come è cambiato il tuo modo di intendere la professione e perché è successo?
Ho sempre amato il mio lavoro e la motivazione è sempre stata altissima.
Diciassette anni fa è nata Chiara, la mia secondogenita ed ha avuto una diagnosi di autismo quando ancora non aveva compiuto i due anni. La professione di colpo è diventata anche necessità, sperimentazione continua, spesso frustrazione perché le sicurezze hanno vacillato più di una volta di fronte alla quotidianità sconcertante vissuta con un bambino autistico.
Purtroppo per me è stato fin troppo facile fare una prognosi, capire quale sarebbe stato il percorso per la mia bambina e quali fatiche avremmo dovuto affrontare.
Tuttavia, l’aspetto più interessante è stato il rifiuto di Chiara ad avermi come terapista: fin da subito mi ha fatto capire che dovevo fare la mamma e non la specialista, che non dovevo intromettermi nelle questioni terapeutiche perché per lei ho un altro ruolo.
Chiara non parla, ma nonostante ciò mi ha sempre “chiesto" di capirla, di tranquillizzarla, di essere confortata, educata, accudita, protetta: Chiara vuole essere e sentirsi amata. Questo mi ha reso molto critica sulle ultime tendenze in cui si tende ad affidare ai genitori anche un ruolo terapeutico: è già così difficile riuscire a fare il genitore!
Una figlia autistica grave: cosa significa questo esattamente?
Il disturbo dello spettro autistico si presenta con una varietà impressionante di modalità, sia nell' intensità sia nella qualità dei sintomi diagnostici.
Dalle forme sub-cliniche, ovvero persone autistiche che non hanno bisogno di sostegno, a quelle organizzate secondo un grado di gravità 1, 2 o 3 relativa alla necessità di sostegno. La mia Chiara si trova ad un livello 3, il più grave, e quindi necessita di un accompagnamento costante in tutte le attività quotidiane.
Quanto cambia la vita di un genitore con un figlio autistico?
Cambia l’Universo, non solo la vita. Tutto si capovolge, assume forme e parametri totalmente nuovi.
Una grande scienziata autistica, Temple Grandin, si è raccontata nel suo rapporto con gli altri come “un antropologo su Marte” tanto distante è la percezione sensoriale di chi è in questa condizione dal resto del mondo.
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Simona Ravera
Il rapporto con le istituzioni: la scuola per esempio…
La scuola sarebbe il luogo ideale per dare ai nostri figli l’opportunità di apprendere e di migliorare crescendo. Questi ragazzi hanno bisogno di continuità fidandosi delle persone che si prendono cura di loro per riuscire ad imparare, devono stare con gli altri ragazzi e sentirsi accettati.
La didattica deve sostenere l’apprendimento cognitivo, relazionale e affettivo, ma il metodo per ottenere questi risultati è altamente specializzato e sono pochissimi gli insegnanti in grado di farlo, anche perché i minori autistici negli ultimi anni stanno aumentando.
Personalmente, collaboro con gli insegnanti allo Sportello Autismo della Provincia di Monza e Brianza e con l’Ospedale di Vimercate, con cui stiamo costruendo una stretta relazione tra formazione, sanità e servizi sociali sul territorio. Per i nostri ragazzi c’è ancora molto, troppo da fare.
Parliamo del dopo: cosa si può fare per i ragazzi in questa condizione? L’inserimento nel mondo del lavoro è possibile?
Negli ultimi anni è l’ambito in cui come professionista sto investendo maggiormente. Sono certa che quasi tutti possano lavorare: il lavoro li nobilita perché i ragazzi hanno bisogno di sentirsi utili e di impegnarsi in qualcosa che li allontani dalla noia.
E’ capitato che un mio giovane paziente mi chiedesse disperato una pillola per accelerare il tempo, perché per il tempo lento è così brutto, da pensare addirittura di uccidersi.
Per i ragazzi in questa condizione l’inserimento nel mondo del lavoro è possibile e vitale, soprattutto in attività artigianali e laboratoriali: alcuni progetti sono diventati dei veri e propri casi, come quello di PizzAut, la prima pizzeria gestita da persone autistiche (sono stati ospiti anche in “Tu si que vales”). Ma non è l’unico: penso a Facciavista, laboratorio d’arte voluto da un papà in cui i ragazzi talentuosi dipingono ritratti di persone famose che sostengono il progetto di professionalizzazione; a Cascina Blu, dove la filiera produttiva comprende attività agricole, produzione alimentare, cura degli spazi, sport e sarà gestita dalle persone autistiche.
Non solo: per chi ha competenze informatiche, e spesso gli autistici hanno particolari attitudini in questo ambito, è stata aperta in Italia la sede di una multinazionale tedesca che impiega nell'IT solo persone autistiche. Indirizzare gli autistici fin da piccoli assecondando talenti e attitudini è fondamentale: per questo investo nella scuola molte risorse immedesimo e cerco di costruire e sostenere progetti per l’avviamento al lavoro.
Simona, essere madri è già molto impegnativo: quanto è difficile per te esserlo con tua figlia?
E’ stato difficile accettare questa situazione, superare la rabbia, cercare di non vedere il futuro. Chiara mi ha insegnato a vedere lei, non la mia idea di lei. Le aspettative sono cambiate, le pretese sono diverse e ho capito veramente cosa vuol dire volere la felicità del proprio figlio.
Il mio sforzo sarà sempre e solo questo: fare in modo che Chiara sia felice. L’ho capita, accettata, amata ed educata: Chiara è felice. E io… sono stata fortunata!