Francesca Ossani, imprenditrice e titolare di Crik Crok
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Piena di energia e di positività, la titolare di Crik Crok ha deciso di accettare una sfida (quasi) impossibile: rimettere in sesto l’azienda leader nella produzione di patatine
Francesca Ossani, figlia di un imprenditore nel settore alberghiero, ha deciso di rimettersi in gioco acquistando Crik Crok e tuffandosi in un progetto di rilancio a cui tiene moltissimo, senza tuttavia mai rinunciare al ruolo che più ama: quello di mamma.
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Ciao Francesca, la nostra chiacchierata inizia in anticipo…
Sì, devo fare una telefonata al professore di mio figlio e non vorrei tardare.
Imprenditrice e mamma, un bel connubio.
Molto mamma! Oltre ad Andrea, che ha sedici anni e frequenta la terza al liceo scientifico, ho anche Allegra, che ha diciannove anni ed è già in procinto di laurearsi. I miei figli sono sempre stati importantissimi per me, il ruolo di mamma è quello che sento più mio: direi che sono una mamma chioccia.
So che tua figlia ha studiato molto all’estero: è stato difficile per te gestire la lontananza?
Sì, abbastanza anche se in fondo la scelta di Allegra di studiare negli USA è stata la logica conseguenza della educazione che i miei ragazzi hanno ricevuto. Ho sempre creduto che conoscere l’inglese e vivere con gli americani fosse importante e per questo motivo, sin da quando erano piccoli, ho fatto in modo che frequentassero i summer camp, non quelli per stranieri, ma quelli destinati ai ragazzi americani. Io rimanevo un mese negli States, li accompagnavo al Camp ogni mattina e li riprendevo ogni pomeriggio: sono cresciuti sentendosi parte della società americana. Quando mia figlia ha deciso di fare il quarto anno di liceo negli Stati Uniti non ho potuto dire di no, ovviamente; ma è stata ancor più difficile da digerire la distanza quando mi ha comunicato che non sarebbe più tornata perché anche per l’università aveva valutato che una esperienza all’estero sarebbe stata di grande valore per lei. Aveva scelto di frequentare a Madrid, ma poi per vari motivi non è stato possibile e quindi ha ripiegato su una università italiana che prevedesse però un percorso di studi fuori dai confini. D’altra parte, Allegra ha le idee molto chiare sul suo futuro: si vede CEO della società, niente male tutto sommato!
Raccontami di te: mi pare che tu abbia iniziato nel settore alberghiero.
Mio papà aveva un albergo molto prestigioso a Roma; purtroppo, si ammalò quando ero ancora una ragazzina e quindi dovetti rinunciare ai miei sogni e studiare alla scuola alberghiera. A causa della sua malattia lo affiancai sempre di più iniziando dalla gavetta: mi mandava ai mercati generali al mattino presto per trattare l’acquisto di frutta e verdura. Poi, diventando grande, acquisii maggiori responsabilità, ma dal personale ero sempre vista come “la figlia di”. Il rapporto con papà tuttavia mutò, prendendo una piega sempre più professionale legata all’hotel: si parlava solo ed esclusivamente di quello, anche a tavola, sempre. Poi, quando avevo ventidue anni, mio padre morì. Fu doloroso, ma ero preparata.
Cosa accadde allora?
Nel frattempo, mi ero iscritta alla facoltà di lettere e dopo la laurea per circa un anno lavorai presso un noto brand italiano di moda e accessori. Tuttavia, desideravo qualcosa di mio e così decisi, quasi un po’ per gioco, di dare vita ad una azienda tutta mia che produceva costumi da bagno e abbigliamento per bambini. Fu un inaspettato successo, arrivai a vendere i miei capi anche oltreoceano; portai avanti questo progetto ancora per qualche anno, ma dopo la nascita del mio secondo figlio allentai tantissimo ponendo fine a questa esperienza. Desideravo essere molto presente coi miei figli e quindi mi riavvicinai all’hotel, non senza difficoltà, purtroppo.
In che senso?
Trascorso del tempo dalla scomparsa di mio padre ed essendomi io dedicata ad altro, l’albergo fu gestito da mio fratello. I rapporti tra me e lui, e tra me e mia madre, che ne prese le parti, divennero molto tesi e alla fine decidemmo di vendere l’hotel. Con mia madre tuttavia le cose migliorarono qualche tempo dopo, anche a seguito della malattia che contrasse: le rimasi molto vicino fino a quando restò in vita.
Dall’ospitalità alla produzione di patatine fritte: come è andata?
Il mio arrivo in Crik Crok, una azienda molto conosciuta, ma piuttosto malmessa dal punto di vista contabile, fu del tutto casuale. Avevo il desiderio di allontanarmi da tutto quello che avevo fatto fino ad allora e avevo voglia di dedicarmi a qualcosa di cui potessi vedere l’intero processo produttivo: Crik Crok mi piacque e mi lanciai in questa avventura.
E’ stato difficile approcciarsi a una realtà così nuova?
In realtà no, perché lo desideravo fortemente. Inoltre, per capire meglio il business e i processi produttivi, decisi di rimboccarmi le maniche e tuffarmi, per così dire, in fabbrica insieme agli operai. Ho voluto conoscere tutti i collaboratori, dai commerciali agli impiegati agli addetti alla produzione, ho fatto in modo che ci sentissimo una squadra e facessimo gruppo. Ho organizzato le cene di Natale e favorito attività extra lavorative perché si costruisse un rapporto di reciproca conoscenza ed empatia tra me e loro, ma anche tra colleghi che in tanti anni non avevano avuto ancora l’opportunità di conoscersi a fondo. Credo di aver fatto un buon lavoro e in ogni caso questi tre anni sono stati formidabili perché mi hanno insegnato moltissimo professionalmente e umanamente. Adesso che finalmente l’azienda è mia e siamo usciti dal concordato, finalmente posso pensare al vero rilancio di un brand che merita di riprendere il suo posto, avendo una storia di ben 70 anni!.
Le patatine non sono proprio amiche della dieta…
No, non lo sono. Io ho cercato di renderle più salutari, diminuendo moltissimo la quantità di sale, prestando grande attenzione alla scelta delle materie prime, usando solo olio di girasole e aromi naturali ed eliminando il glutine. D’altra parte, innovazione e cambiamento sono d’obbligo in una realtà che muta così velocemente qual è la nostra.
Un suggerimento alle donne?
Nella vita non bisogna dire di non essere riusciti se non si è davvero provato a fare quello a cui veramente si tiene. La mia filosofia infatti è: io ci provo, al massimo non andrà bene. Quando si vuole qualcosa, bisogna volerla con tutti se stessi, ma talvolta è proprio la mancanza di desiderio o di volontà il vero problema.
Come concluderesti questa chiacchierata?
Voglio dire che dedico questa sfida a mio padre: se sono la donna che sono oggi lo devo a lui e a tutti i valori che mi ha trasmesso.