Il Fondo di Cali vuole favorire una redistribuzione equa dei benefici e dei profitti derivanti dall’uso delle informazioni relative al sequenziamento digitale (DSI) delle risorse genetiche
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È nato in Colombia lo scorso novembre, durante la Cop16, ma è diventato operativo ieri a Roma, durante la ripresa dei lavori della COP16.
Subito accolto da tutti come una storica misura di giustizia climatica, il Fondo di Cali vuole favorire una redistribuzione equa dei benefici e dei profitti derivanti dall’uso delle informazioni relative al sequenziamento digitale (DSI) delle risorse genetiche. Risorse sfruttate per lungo tempo dai Paesi del Nord del mondo senza una condivisione adeguata con le popolazioni indigene custodi delle biodiversità.
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Ma cosa intendiamo con DSI? L’infinità di dati e sequenze genetiche ricavate dalla biodiversità e usate dall’uomo nella farmaceutica, nelle biotecnologie, nella cosmesi e tanti altri settori. Risorse ricavate da piante o animali di cui per secoli di cui si sono occupate comunità locali, ma con cui i grandi gruppi e le multinazionali non hanno diviso i guadagni.
Qui entra in gioco il Cali Fund, un fondo in cui raccogliere una parte del fatturato da dedicare alla tutela della stessa biodiversità sfruttata. In altre parole, le imprese che usano le risorse genetiche digitalmente sequenziate restituiranno parte del loro guadagno alla natura e a cui la custodisce.
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Tutto è però nelle mani dei privati, perché il funzionamento del fondo è privo di obblighi. Le aziende dovranno scegliere volontariamente se partecipare e compensare in parte i loro ricavi, oppure no, trasformando il Cali Fund in un buco nell’acqua.
La speranza è che questa condivisione più equa dei benefici che la natura ci offre possa diventare realtà. In caso positivo, come ha dichiarato il WWF "[il Fondo] rafforzerà il raggiungimento degli obiettivi volti a fermare e invertire la perdita di natura entro il 2030, assicurando al contempo benefici diretti a coloro che hanno salvaguardato gli ecosistemi per secoli".