Alla luce della Riforma dell'art. 18

Licenziamento, tutti i motivi che mi possono far perdere il lavoro

Come orientarsi tra licenziamento per giusta causa, per giustificato motivo, disciplinare e discriminatorio dopo la riforma dell'articolo 18

15 Nov 2013 - 15:57
 © Ansa

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L'approfondimento di oggi è dedicato alla fine anticipata dei rapporti di lavoro: perché posso essere licenziato e come difendo il mio impiego?  Leggi anche gli altri articoli dello speciale dedicati agli errori di chi si propone per una posizione, alle potenzialità del web, al mondo della pubblica amministrazione, alla giungla degli stage, all'importanza di fare cv e colloquio perfetti, ai contratti esistenti,  al mondo degli autonomi e agli effetti della riforma Fornero. 

Nel 2012 più di un milione di italiani ha subito il licenziamento. Il 13,9 per cento in più rispetto all’anno precedente. Una lettera da parte del datore di lavoro e in pochi giorni il posto di lavoro non c’è più. Ma quali sono le regole di questa odiosa procedura e come ci si difende? Tgcom24 fa il punto della situazione su tale spinosa materia con l’aiuto dell’avvocato Rocchina Staiano, docente dell’Università degli Studi di Teramo e autrice del volume “Cassa integrazione e licenziamento dopo la riforma” (Maggioli Editore).

Avvocato Staiano, cos’è il licenziamento? “Si tratta del recesso del contratto da parte del datore di lavoro. Nell’ordinamento italiano distinguiamo licenziamento individuale e collettivo. Nell’individuale bisogna distinguere il settore privato dal settore pubblico. Quest’ultimo è regolato dal testo unico modificato in parte da riforma Brunetta. In ambito privato, invece, le tipologie di licenziamento sono diverse: licenziamento per giusta causa, per giustificato motivo (distinto in soggettivo e oggettivo), disciplinare, discriminatorio, orale, ad nutum”.

Quali sono le diverse tipologie di licenziamento? “Ne esistono diversi tipi. Licenziamento per giusta causa: la definizione è molto ampia. In generale si verifica in presenza di comportamenti talmente gravi da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro. Di fatto si tratta di una definizione calderone. È la giurisprudenza a spiegare le ipotesi concrete: il rifiuto ingiustificato del lavoratore a eseguire la prestazione; il rifiuto del lavoratore a riprendere il posto di lavoro dopo che il medico dell’azienda lo ha dichiarato guarito, ma contro il parere del medico personale; se durante il periodo di malattia il lavoratore compie comunque qualcosa di grave, per esempio un lavoro presso terzi che pregiudica la guarigione. Altri casi che portano al licenziamento sono la sottrazione di beni aziendali, per esempio un cellulare, un iPad, e la condotta extra lavorativa penalmente rilevante che incide sul buon nome dell’azienda. Infine l’utilizzo di stupefacenti o alcool, anche se dobbiamo ricordare che è prevista l’opzione della riabilitazione in cambio della quale il posto di lavoro viene conservato. In tutti questi casi il licenziamento avviene senza preavviso, in tronco”.

Licenziamento per giustificato motivo: dobbiamo fare distinzione tra giustificato motivo soggettivo e oggettivo.
Licenziamento per giustificato motivo soggettivo: avviene quando da parte del lavoratore c’è un comportamento o un inadempimento degli obblighi contrattuali meno gravi rispetto alla giusta causa. In questo caso il licenziamento avviene con un preavviso regolato in modo diverso dai vari contratti collettivi. Avviene se il lavoratore abbandona in modo ingiustificato il posto di lavoro (non si presenta al lavoro e non dà motivazione), se percuote o minaccia un collega o il datore di lavoro, se viola in maniera reiterata il codice disciplinare affisso in azienda.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
: con la legge 92 del 2012 (la cosiddetta riforma Fornero), questo tipo di licenziamento è stato indicato come legato ai motivi economici. Avviene nel caso di riorganizzazione del lavoro, di crisi aziendale, di soppressione di quella mansione, per ragioni attinenti l’attività produttiva, oppure se il datore di lavoro ha poche commesse. Si differenzia dal licenziamento collettivo perché interessa meno di cinque lavoratori lasciati a casa nell’arco di 120 giorni”.

Licenziamento disciplinare: è regolato dallo Statuto dei lavoratori, la famosa legge n. 300 del 1970. Implica che all’interno dell’azienda ci sia un codice disciplinare che individua infrazioni e sanzioni per i comportamenti antisociali e i reati e che debba essere affisso in luogo accessibile a tutti. Quando il datore di lavoro nota l’inadempienza deve farla rilevare al dipendente per iscritto (la cosiddetta contestazione), il prima possibile e in modo circostanziato. Il lavoratore può difendersi entro cinque giorni ricorrendo al giudice ordinario oppure entro venti giorni tramite arbitrato”.

Licenziamento discriminatorio: può avvenire per ragioni sindacali, di genere, infine per motivi di razza, handicap, età, orientamento sessuale e religione, convinzioni personali (da quelle sportive a quelle politiche)”.

“Licenziamento ad nutum (cioè con libera recedibilità): questa ipotesi non include il preavviso. Avviene con una lettera semplice. Si verifica con il lavoratore in prova, i lavoratori domestici (colf e badanti), lavoratori che hanno diritto alla pensione, dirigenti, apprendisti”.

Quando il licenziamento è invalido? “Quando il datore dà solo l'avviso orale: quello è considerato un licenziamento inefficace. Per essere valido deve essere sempre e soltanto in forma scritta”.

Quando invece, un licenziamento è illegittimo? “Quando viene scelta la tipologia sbagliata: non c’è giusta causa, non c’è giustificato motivo oggettivo. Quest’ultimo è il caso, per esempio, del datore di lavoro che dice ‘ho poche commesse’ ma in realtà licenzia il dipendente che gli sta antipatico. Il giudice allora può guardare i bilanci dell’azienda per verificare la situazione”.

Il lavoratore come fa a difendersi da un licenziamento che considera illegittimo? “Prima della modifica dell’articolo 18 in caso di licenziamento illegittimo, per le aziende con più di 15 dipendenti o di 5 in caso di azienda agricola, la tutela reale prevedeva reintegro o riassunzione nella sede e nella mansione, pagamento di tutti gli stipendi arretrati e dei contributi fino alla reintegra, risarcimento dei danni mai inferiore alle cinque mensilità. Il lavoratore poteva accettare la reintegra oppure un’indennità pari a 15 mensilità. In ogni caso l’impostazione era abbastanza vessatoria nei confronti del datore di lavoro.

Oggi, a fronte dell’intervento dell’ex ministro Fornero, il regime sanzionatorio da applicare nei casi di licenziamento illegittimo è cambiato e si è fatto in quattro a seconda della gravità del vizio che inficia il licenziamento. Si distinguono, in particolare, quattro differenti tipi di tutela con quattro regimi sanzionatori:

- Tutela reintegratoria “piena”: si applica in tutti i casi di nullità del licenziamento, perché discriminatorio oppure comminato in costanza di matrimonio o in violazione delle tutele previste in materia di maternità o paternità oppure negli altri casi previsti dalla legge; nei casi in cui il licenziamento sia inefficace perché intimato in forma orale. In tali ipotesi, il giudice, dichiarando nullo il licenziamento, ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore al risarcimento del danno subito per il periodo successivo al licenziamento e fino alla reintegrazione e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo intercorrente fra il licenziamento e la reintegrazione. Il risarcimento del danno è rappresentato da un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale e non può in ogni caso essere inferiore alle cinque mensilità. Fermo restando tale risarcimento, il lavoratore ha, comunque, la possibilità di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale.

- Tutela reintegratoria “attenuata”: si applica in caso licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo illegittimo per insussistenza del fatto contestato o perché il fatto rientra in una delle condotte punibili con sanzione conservativa sulla base del CCNL applicabile; in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, se il fatto è manifestamente infondato. Il giudice, annullando il licenziamento, ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento del risarcimento del danno oltreché al versamento dei contributi previdenziali per tutto il periodo fino alla reintegrazione effettiva. Il risarcimento, in questo caso, corrisponde a una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione.Il legislatore fissa inoltre un limite massimo per il risarcimento, che non può in ogni caso superare un importo pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Anche in tal caso, il lavoratore può optare per l’indennità sostitutiva della reintegra.

- Tutela meramente obbligatoria: si applica in tutte le ipotesi non contemplate dalle altre tutele, qualora il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro. In tal caso il giudice, dichiarando risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento, condanna il datore i lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti.

- Tutela obbligatoria “ridotta”: si applica alle ipotesi in cui il licenziamento risulti illegittimo per carenza di motivazione o per inosservanza degli obblighi procedurali previsti per il licenziamento disciplinare o per il giustificato motivo oggettivo. In tali casi il giudice, dichiarando l’inefficacia del licenziamento, condanna il datore di lavoro al pagamento di un indennità variabile tra sei e dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, da valutarsi da parte del giudice in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro.

Avvocato Staiano, l’articolo 18 è superato o tutela ancora un principio giusto? “Come avvocato e come studiosa penso che si poteva fare a meno di modificarlo. Non abbiamo avuto nessun effetto, forse qualcuno negativo. Si è fatto un pasticciaccio brutto. Il fatto di avere inserito quattro regimi sanzionatori consente al giudice di stabilire il risarcimento, ma non ci sono criteri univoci. Si lascia tutto alla sua libera discrezionalità”.

L’articolo 18 paralizza davvero le nuove assunzioni? “No, come si licenziava tre anni fa si licenzia anche adesso. Anche prima della riforma, i datori di lavoro cercavano di avere meno di 15 dipendenti e quindi di esser fuori dal regime normato dall’articolo 18. E’ molto retorico dire che questa norma blocca il mercato del lavoro. I problemi sono semmai la congiuntura economica e il cuneo fiscale, cioè la differenza enorme tra l’importo lordo pagato dal datore di lavoro e il netto percepito dal dipendente”.

Dopo la riforma Fornero, quindi è più facile o più difficile licenziare? A questa domanda risponde l’avvocato Giampiero Falasca, partner dello Studio Dla Piper e responsabile del dipartimento lavoro: “Su questo punto è ancora presto per dare un giudizio: la riforma ha introdotto il rito accelerato per le cause di lavoro e quello è stato un fallimento. I gradi di giudizio da tre sono diventati quattro e in ogni tribunale si applicano regole differenti. Poi da una regola chiara adesso abbiamo un sistema molto eterogeneo. A volte il giudice reintegra, a volte concede l’indennità, il confine tra l’uno e l’altro risarcimento è rimasto labile. Sono però, aumentate le conciliazioni delle liti. Il fatto più evidente è semmai un altro: non è la complessità di licenziare a paralizzare le assunzioni. Prima dell’articolo 18, ci sono tanti altri vincoli che scoraggiano i datori di lavoro e li convincono a non aprire nuovi rapporti”.

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