Dal 2008 il 5,7% dei gruppi esteri ha lasciato l'Italia. Sono stati così persi molti posti di lavoro, in un Paese che ha difficoltà ad attrarre investitori stranieri
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Non che sia una novità: l'Italia ha molte difficoltà ad attirare le imprese straniere. Troppi i ritardi strutturali a cui non si è ancora trovato un rimedio e che inducono tanti investitori stranieri a restare lontani dal nostro Paese o ad abbandonarlo così come accaduto in diversi casi nel corso degli ultimi anni.
In Italia sono presenti oltre 90 mila gruppi con più di 206 mila imprese attive e 5,6 milioni di addetti, secondo quanto recentemente rilevato dall'ISTAT. All'aumento del numero delle aziende presenti sul territorio (+1,5% rispetto al 2011) non è tuttavia corrisposto un incremento dei posti di lavoro, diminuiti dello 0,9%.
Tra i tanti dati riferiti dall'Istituto di statistica, ve n'è uno in particolare che deve indurre ad una riflessione: nell'arco di cinque anni (2008-2012), molti gruppi stranieri hanno deciso di abbandonare il nostro Paese (-5,7%) con effetti inevitabili anche sul numero dei posti di lavoro, calati del 10,7%.
Ma se alcune imprese straniere decidono di abbandonare l'Italia, molte preferiscono restarne lontane. Il nostro Paese fatica infatti ad attrarre investimenti esteri (IDE). Il rapporto tra stock di IDE e il Prodotto interno lordo è così al 15,2%: un terzo di quello medio europeo, la metà rispetto a quello di Paesi ed inferiore rispetto a quello di Germania, Regno Unito, Spagna e Francia.
Nello specifico: il 90% degli IDE è riconducibile a solo sei regioni - Lombardia, Lazio e Piemonte in testa - dove il rapporto IDE/PIL tocca quota 24% (all'incirca come la Germania). Come è possibile tutto ciò?
Uno dei principali elementi di deterrenza sarebbe un mercato del lavoro scarsamente flessibile. Eppure l'indice OCSE sulle restrizioni del mercato del lavoro assegna – in una scala dallo 0 (nessuna restrizione) al 6 (massimo di restrizioni) – un 2.58 al nostro Paese. Meglio di Francia (3) e Spagna (3.11).
Molti sono i fattori che scoraggiano le imprese straniere: i tempi della giustizia civile (“La risoluzione delle dispute richiede 1.185 giorni: il doppio della media europea”, come osservato dall'ISTAT) e dalla pressione fiscale: un imprenditore in Italia è chiamato ad effettuare 15 pagamenti all'anno (contro i 12 della media OCSE) e ad impiegare 269 ore l'anno (contro una media di 175). Mentre per quanto riguarda tasse e contributi sul lavoro paga il doppio rispetto a quanto accade altrove: il 43,4% contro la media del 23,1%.
E così le principali graduatorie, che classificano i Paesi in base alla loro capacità di attrazione, non offrono un giudizio esaltante dell'Italia. Ecco qualche esempio: il Global Competitiveness Indicator 2013 del World Economic Forum ci pone al 49° posto su 148 Paesi. Nel Doing Business 2014 della Banca Mondiale, che valuta la facilità di fare impresa, occupiamo invece la posizione numero 65 sulle 189 disponibili. Lontanissimo quindi da Gran Bretagna (decima posizione), Germania (21esima), Francia (38esima) e Spagna (52esima).
Gli investimenti esteri non offrono solo vantaggi prettamente occupazionali (in Italia ad ogni milione di euro investito in attività produttive corrispondono circa 20 nuovi occupati, secondo uno studio della società di consulenza McKinsey) ed economici. A risentirne (positivamente) è il sistema nel suo complesso, che ha così la possibilità – grazie anche ad una maggiore interazione con realtà diverse – di migliorare le proprie competenze e favorendo la partecipazione delle imprese italiane alle reti produttive internazionali.