Crisi economica

Crisi: Italia tra i paesi dell'Eurozona con il minor numero di ore lavorate

Il costo del lavoro è sotto i livelli di Germania e Francia, ma resta più alto della media europea

17 Dic 2014 - 16:10
 © lapresse

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La crisi economica, dal 2008 ad oggi, ha bruciato oltre un milione di posti di lavoro e allo stesso tempo, come rilevato da Tecnè in una recente indagine, ha evidenziato il calo delle ore lavorate (quantificabili in -4,3 miliardi), una contrazione pari al 9,4%. Sono diversi, infatti, gli indicatori che aiutano a descrivere meglio le dinamiche che compongono il mercato del lavoro, tassi di occupazione e disoccupazione – che pure restano i più importanti – a parte.

Ad esempio anche l'Eurostat, sebbene il periodo di riferimento corrisponda all'anno 2012, conferma il trend nel confronto con gli altri paesi dell'Eurozona. L'Italia risulta essere tra i paesi con il minor numero di ore lavorate (1.565), in compagnia della Danimarca (1.571), del Belgio (1.462) e della Francia (1.555), dove non a caso è anche più alto il costo del lavoro. Il numero delle ore lavorate, rispetto al 2008, è comunque sceso sia nell'Eurozona che nell'Ue a 28, mentre i costi medi orari sono cresciuti dell'11,8% (Eurozona) e del 10,9% (Ue a 28). L'ultimo report Istat sul tema spiega che nel terzo trimestre il monte ore lavorate destagionalizzato ha registrato un aumento congiunturale dello 0,3% nell'industria e dello 0,7% nei servizi.

Il costo del lavoro, è bene ricordare, è la somma delle retribuzioni lorde e degli oneri sociali. Nel terzo trimestre del 2014 l'incremento congiunturale del costo del lavoro per Ula (unità di lavoro) “è dello 0,7% nel complesso dell'industria e dei servizi”, con aumenti dello 0,5% nell'industria e dello 0,6 nei servizi. In termini tendenziali (cioè rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente), il costo del lavoro per Ula nell'insieme dell'industria e dei servizi aumenta dell'1,6% quando la crescita è maggiore nell'industria (+2,3%) che nei servizi (+1,3%). Gli oneri sociali per Ula, quindi – gli oneri sociali sono i contributi a carico del datore di lavoro, versati agli enti di previdenza e assistenza sociale, e gli accantonamenti di fine rapporto – segnano una crescita congiunturale dello 0,7% nel totale dell'industria e dei servizi, con un incremento dello 0,6% nell'industria e una crescita dello 0,8% nei servizi.

Dunque le retribuzioni lorde per unità di lavoro, fa sapere l'Istat, registrano nel totale dell'industria e dei servizi un incremento dello 0,6% rispetto al trimestre precedente. L'aumento è dello 0,5% nell'industria e dello 0,4% nei servizi. La crescita tendenziale delle retribuzioni per Ula è dell'1,4% nel totale dell'industria e dei servizi, del 2,3% nell'industria e dello 0,9% nei servizi.

Retorica esclusa, il costo del lavoro in Italia – un'ora di lavoro costa alle nostre aziende 28 euro, sottolinea l'Eurostat – è minore che in altre economie del Vecchio continente, vedi Germania e Francia, ma comunque più alto della media europea, che si attesta a 24,2 euro. In Germania, ad esempio, il costo è pari a 31,6 euro. Diametralmente opposta la situazione in Polonia (7,9 euro), in Romania (4,1 euro), in Bulgaria (3,4 euro).

Interessante, inoltre, tra gli indicatori analizzati dall'Istat, il tasso di posti vacanti. Quest'ultimo riguarda il lato della domanda, cioè delle figure professionali che servono alle imprese. Spiega l'Istat: i posti vacanti “sono quei posti di lavoro retribuiti che siano nuovi o già esistenti, purché liberi o in procinto di diventarlo, per i quali il datore di lavoro cerchi attivamente un candidato adatto al di fuori dell'impresa interessata e sia disposto a fare sforzi supplementari per trovarlo".

In Italia il tasso di posti vacanti è stabile da diversi mesi e si attesta su livelli molto bassi, allo 0,5% (le rilevazioni comprendono ad ogni modo imprese con almeno dieci dipendenti dell'industria e dei servizi). A sottolineare, specificava già a settembre l'Istituto di statistica nelle previsioni relative alla situazione economica del paese, la prolungata scarsità di posti di lavoro disponibili "che sembra divenire una caratteristica strutturale".

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