La mancata partecipazione delle donne al mercato del lavoro ha un riflesso negativo sul Pil
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Le differenze di genere sono da sempre un tema molto delicato, che andrebbe affrontato dai governi in maniera più incisiva. Non solo impediscono alle donne di raggiungere la piena realizzazione, opportunità che agli uomini è preclusa decisamente meno, ma hanno anche un costo. In termini di perdita, si intende.
L'Istat ha osservato dunque un trend negativo che di fatto dipinge un sistema che discrimina le donne nel nostro paese. Una situazione che ne condiziona la vita lavorativa e oltre. Perché, avverte l'Istituto nazionale di statistica, gli occupati tra i 58 e i 63 anni, ovvero la platea dei potenziali destinatari delle misure di flessibilità in uscita dal lavoro, sono quasi due milioni, due terzi dei quali uomini.
In più nel 2014 la maggioranza delle pensionate (il 52,8%) aveva redditi da pensione inferiori mille euro al mese, mentre la situazione investe un terzo degli uomini. Il 15,3% delle pensionate ha redditi inferiori a 500 euro, il 10,2% delle pensionate percepisce un reddito da pensione superiore a duemila euro contro il 23,9% dei pensionati uomini.
Questi divari, sottolinea ancora l'Istat, "non verranno colmati fintanto che non saranno superate le disuguaglianze di genere nel mercato del lavoro, nell'organizzazione dei tempi di vita, e non sarà disponibile una rete adeguata di servizi sociali per l'infanzia". Discorsi già affrontati, eppure sempre attuali a testimonianza di un ritardardo che caratterizza, purtroppo, il nostro paese.
Alcuni dei dati cui si è dato particolare risalto – il 30% delle donne occupate ha lasciato il lavoro dopo la gravidanza – neanche stupiscono troppo. Secondo il rapporto di Save the Children, Mamme nella crisi, in occasione o a seguito di una gravidanza, solo nel periodo 2008-2009, ben 800 mila mamme sono state licenziate o hanno dovuto subire pressioni in questo senso.
Sul fronte occupazionale, tuttavia, è vero che l'occupazione femminile è tendenzialmente cresciuta in Europa, ma nel caso italiano l'aumento è coinciso con il drastico calo degli occupati uomini. Secondo il Rapporto Donne 2015 di Manageritalia, nel corso degli ultimi dieci anni il numero delle donne occupate è cresciuto molto (+6,2%): un incremento sostanzioso e contrapposto, appunto, dalla diminuzione della componente maschile (-3,9%).
Nella media del 2014 (i dati sono dell'Istat) la crescita occupazionale – che nei fatti ha segnato un primo miglioramento del mercato del lavoro – ha coinvolto tanto la componente maschile quanto quella femminile. Tuttavia se gli uomini hanno registrato un incremento dello 0,6%, le donne hanno evidenziato una crescita dello 0,2%. Il tasso di occupazione tra le donne rimane comunque relativamente basso, pari nella media del 2014 al 46,8% (da non sottovalutare il contributo della componente straniera) rispetto al 64,7% degli uomini (senza contare, poi, le differenze salariali).
Tutto ciò ha un impatto economico devastante. Uno studio un po' datato (ma che rende bene l'idea) dell'Onu, il Gender Inequality, Growth and Global Aging, affermava nel 2007 che la parità uomo-donna avrebbe contribuito ad un aumento del Pil nell'Eurozona pari al 13%. Stando invece ad uno studio più recente della società McKinsey, di cui abbiamo riferito ieri, pur rappresentando il 50% della popolazione in età da lavoro, nei 95 paesi analizzati le donne generano soltanto il 37% del Prodotto interno lordo.
Insomma, spesso accade che le donne siano costrette a compiere una scelta: o lavoro o figli. Le politiche a sostegno delle famiglie, secondo l'Ocse, non sempre risultano sufficienti e l'Italia in particolare investe poco in materia. Basti pensare che il nostro paese presenta una natalità pari a 8,5 bambini ogni mille abitanti (dati Eurostat), quando è di 12,2 bambini nel Regno Unito e di 12,3 in Francia.