Secondo il Centro studi di Unimpresa, l'incremento si tradurrebbe in un costo aggiuntivo per le famiglie italiane pari a 414 euro
Un documento di lavoro della Commissione europea – la relazione è datata 22 febbraio 2017, ma è stata riportata dalla stampa solo qualche giorno dopo, il 7 marzo – ha ipotizzato l'aumento dell'aliquota IVA (ovvero l'imposta sul valore aggiunto) ordinaria e di quella ridotta, ad oggi (rispettivamente) al 22 e al 10%.
Secondo le simulazioni della Commissione europea, un eventuale incremento dell'IVA dall'attuale 10 al 13% avrebbe effetti “progressivi” e genererebbe un aumento del reddito disponibile fino al 3% per le fasce più basse, a patto che le risorse vengano destinate ad un credito d'imposta per il lavoro dipendente.
Il documento di lavoro conclude che “uno spostamento ottimale del carico fiscale verso i consumi potrebbe ridurre ulteriormente l'onere fiscale sul lavoro e favorire la lotta contro la povertà e la disuguaglianza”. Un'analisi del Centro studi di Unimpresa – lo studio si basa sui dati del ministero dell'Economia e della Corte dei conti –, diffuso nei mesi scorsi, ha quantificato l'impatto di un eventuale aumento dell'IVA dall'attuale 22 al 24%.
L'incremento garantirà un maggior gettito fiscale pari a 15,1 miliardi di euro. L'impatto sulle famiglie sarà di 414 euro. L'analisi sostiene che l'aumento avrà un effetto sui prezzi: l'indice dei prezzi al consumo dovrebbe salire dell'1,40% nel 2017. Nei giorni scorsi l'OCSE – ovvero l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico – ha osservato che il gettito IVA italiano “è inferiore a quanto dovrebbe essere”.
Nel documento sul DEF 2016, la Corte dei Conti ha sottolineato che attualmente l'Italia si colloca tra gli ultimi Paesi europei per incidenza dell'IVA sul Prodotto interno lordo (PIL), con un valore che non raggiunge il 6% e che è di circa 0,8% punti percentuali inferiore al valore della media dell'Unione europea.
In particolare, ha osservato la Corte dei Conti, il nostro Paese si colloca all'undicesimo posto per livello di quella ordinaria (anche se al primo tra i nostri principali partner europei), mentre solo altri quattro Paesi – l'elenco include: Francia, Lussemburgo, Malta e Regno Unito – hanno aliquote cosiddette “super-ridotte”, inferiori cioè al 5%.