Una categoria di lavoratori spesso penalizzata, nonostante le competenze e l'alta qualificazione. Con la legge di stabilità qualcosa potrebbe cambiare
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Con la nuova legge di stabilità il governo dovrebbe introdurre novità importanti per le partite Iva. Le voci della vigilia permettono ai lavoratori autonomi di confidare in un passo in avanti. Si è parlato, non senza qualche riserva tuttavia, di un adeguamento fiscale e allo stesso tempo di maggiori tutele, altrimenti pressoché assenti per questa tipologia di lavoratori.
Uno degli effetti più immediati del Jobs Act è stato la stabilizzazione di determinate posizioni contrattuali, partite Iva comprese. Che molto spesso – definite non a caso “finte partite Iva” – nascondono di fatto una forma atipica di lavoro subordinato. Già nel mese di luglio si era registrato un calo non indifferente delle partite Iva rispetto allo stesso periodo del 2014 (-6,9%), con eccezione di alcune aree territoriali che invece evidenziavano un aumento.
A causa dei “tratti” che caratterizzano le partite Iva (e in moltissime occasioni i collaboratori a progetto) emerge un quadro desolante. Una sorta di identikit, infatti, è stato disegnato da un recente studio promosso dalla Cgil secondo cui i lavoratori autonomi (circa tre milioni e 400 mila) sono nella maggior parte dei casi professionisti altamente qualificati (almeno il 53% di essi è laureato), eppure il reddito è poca cosa al cospetto del bagaglio di competenze: il 45% guadagna più di 15 mila euro l'anno. Lordi, ovviamente.
Una condizione che riguarda soprattutto i lavoratori giovani o nel pieno della vita lavorativa (il 43%, infatti, comprende persone tra i 30 e i 45 anni), mentre gli uomini sono il 58,4% del totale e le donne il 41,6%.
Questi lavoratori possono avere contratti con più committenti ed è proprio la partita Iva la formula a cu si ricorre di più (nel 74,1% dei casi). Il problema, si diceva anche all'inizio, è però legato soprattutto alle tutele. O meglio, all'assenza di tutele. Precarietà, mancanza di coperture sanitarie, tasse e pressione contributiva sono gli elementi da cui derivano le principali difficoltà.
Insomma, molti di loro – loro malgrado – rientrano a pieno titolo tra i cosiddetti working poor (i nuovi poveri, per dirla altrimenti), platea di lavoratori che secondo le ultime stime di Unimpresa dovrebbero essere all'incirca sei milioni, ripartiti tra le diverse tipologie contrattuali.
Migliorare le condizioni di questi lavoratori, rivalutando soprattutto il modello di welfare, diviene fondamentale per incentivare un'occupazione di qualità, evitando in aggiunta il rischio di una dispersione di capitale umano, tale da deteriorare definitivamente il nostro mercato del lavoro.