La differenza di produttività tra i giorni passati lavorando a casa e quelli passati in ufficio varia dal 15 al 40% di maggiore produttività stando a casa
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Recentemente diverse aziende hanno dimostrato di credere nello smart working, un'organizzazione del lavoro caratterizzata da una flessibilità di orari (e di sede) e dall'utilizzo degli strumenti digitali. Molte altre (specie quelle di medie e piccole dimensioni) appaiono invece restie a fare altrettanto, rimanendo legate ad una visione più tradizionale del lavoro. Eppure i benefici economici dovuti allo smart working non mancherebbero.
In cosa consiste lo smart working? In cambio del conseguimento degli obiettivi prefissati, l'azienda concede al lavoratore una maggiore flessibilità oraria, un più frequente utilizzo degli strumenti digitali (smartphone, tablet...), che consentono di lavorare efficacemente anche lontano dal luogo e al di fuori degli orari di lavoro tradizionali (riducendo anche tempi e costi di trasferta), e infine una contemporanea riorganizzazione degli spazi di lavoro per incentivare la collaborazione, la comunicazione e la concentrazione.
Così facendo le aziende italiane risparmierebbero moltissimo, sostengono gli analisti dell'Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano. Quanto? Dieci miliardi di risparmio di costi diretti, a cui ne vanno sommati 27 dovuti ad un incremento della produttività pari al 5,5% (la differenza di produttività tra i giorni passati lavorando a casa e quelli passati in ufficio varia dal 15 al 40% di maggiore produttività stando a casa). Per un totale complessivo 37 miliardi di euro. Evidentemente abbastanza per convincere alcune imprese italiane ad abbandonare un modello di organizzazione tradizionale del lavoro.
Infatti il 67% delle aziende italiane ha già avviato almeno un'iniziativa. Ma tra queste solo l'8% ha deciso di adottare completamente il modello di lavoro "smart", parliamo di imprese che contano oltre 500 addetti attive nel comparto alimentare, nelle Ict (Information and Communication Technology) e nel settore manifatturiero. Una percentuale destinata a crescere, stando ad alcune stime, fino al 19% nei prossimi due anni.
Ad oggi, stando ai dati raccolti nel corso dell'ultima rilevazione dell'Osservatorio, soltanto il 25% delle piccole e medie imprese italiane (Pmi) prevede la flessibilità nell'orario di lavoro, ma soltanto il 10% di queste lo offre concretamente a tutto il personale. Le Pmi paiono poco propense anche all'utilizzo del telelavoro, presente nel 20% delle imprese, ma concesso ai dipendenti nel 2% dei casi. Per le grandi aziende, invece, la flessibilità nell'orario di lavoro è quasi il triplo rispetto alle Pmi e il telelavoro è circa il doppio.
Tuttavia, secondo l'Osservatorio Smart Working del Politecnico, le iniziative delle singole aziende non sono sufficienti. Quest'ultime, infatti, devono essere accompagnate (necessariamente) da interventi sulle infrastrutture, come ad esempio la diffusione della banda larga e della rete Wi-Fi nei luoghi pubblici, oltre all'introduzione di nuove forme contrattuali più semplici e che agevolino le forme di flessibilità.